Carla Cerati
http://www.marsilioeditori.it/focus-cerati.htm
Carla Cerati fotografata da Grazia Neri
http://milano.corriere.it/arte_e_cultura/articoli/2007/03_Marzo/08/cerati.shtml
Storie di Fotografia 3 CONVERSAZIONI A cura di Silvia Paoli e Giorgio Zanchetti
14 gennaio 2010, ore 17.30 Incontro con CARLA CERATINel corso dell’incontro verranno proiettati video e filmati d’epoca inerenti la sua esperienza e il suo lavoro di fotografa.
Sala
consultazione
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Sarà inaugurata presso la Galleria Jannone la mostra di Carla Cerati Nudi a cura di Paolo Morello. La mostra resterà aperta fino al 31 gennaio 2008tutti i giorni escluso i festivi dalle 15.30 alle 19.30Nell’Italia dei primi anni Settanta, tra i molti generi
della fotografia, il nudo era uno dei meno frequentati. Cosa cercava, la Cerati, in quei frammenti di corpi? Perseguiva con maniacale passione, una volontà di forma. Il ‘corpo come oggetto’ era lo strumento più duttile di cui potesse disporre. Pretesto, pura occasione sulla quale condurre le sue verifiche sull’astrazione. Strumento duttile, ma non privo di corruzioni: «arrivo — scrive — fin dove resiste la perfezione». Il suo problema
non era dare forma ad un canone, a un ideale estetico, Paolo Morello
info: Galleria Antonia Jannone Disegni di Architettura corso Garibaldi 12520121 Milanotel +39 02 29 00 29 30fax +39 02 65 55 628
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INAUGURAZIONE MOSTRA C.S.A.C. DEDICATA A CARLA CERATI Giovedì 20 dicembre, alle ore 17, La mostra, composta da circa 400 fotografie dell’artista Se si dovesse fare, e si farà di certo, una storia della fotografia italiana, la collocazione di Carla Cerati sarà difficile da stabilire: fotografa di un globale conflitto di classe, fotografa critica della borghesia milanese, fotografa di alcuni degli spettacoli teatrali della avanguardia, ad esempio quelli del Living Theatre, o ancora fotografa degli spazi aperti delle amate Langhe? E come collocare questa storia complessa accanto alle ricerche sul colore, alle fotografie di architettura, e come ancora analizzare le fotografie tenendo conto che Carla Cerati è una narratrice impegnata sul versante della condizione femminile? Cominciamo dalle fotografie del saggio di danza al Piccolo Teatro, siamo nel 1960, con le ragazzine che appaiono da dietro le quinte come in “Bellissima” di Luchino Visconti. Ma subito dopo ecco il cambiamento: nella serie “Entraque” la fotografa propone lo spessore, la densità, la storia della campagna, paesi e case come scavate, intonaci e tetti di pietra segni di un tempo fermato; la materia appare legata alla ricerca pittorica dell’Informale che caratterizzerà il lavoro della Cerati, quantomeno quello sul paesaggio, per alcuni decenni. Intanto Carla fotografa le persone, scatta ritratti di gente del popolo, gente del Piemonte e gente del sud, scoprendo una umanità che prende senso dallo spazio attorno e dalla memoria di quello spazio. Poi viene, nel 1964, la ricerca sulle Langhe che suggerisce , come del resto “Liguria”, una attenzione agli spazi emarginati delle campagne ma anche al loro disfarsi, dissolversi, emergere come sfatta materia, una grafia che accomuna la Cerati alle ricerche di Mario Giacomelli e Nino Migliori. Carla Cerati fa del ritratto un diverso modo di fare cronaca, racconto; ne sono prova in mostra la serie dell’alluvione di Firenze dove soldati e civili, studenti e cittadini, sono attori su una scena dove le distruzioni, le rovine sono l’eco delle figure umane. Questo sapere scavare nel ritratto e questo trasformare lo spazio del reale in scena fa comprendere perché proprio Carla Cerati abbia saputo cogliere il senso degli spettacoli del Linving, con foto di una tensione, di una violenza espressiva, anche nei contrasti di nero profondi, che non hanno confronti. Gli anni ormai sono quelli della contestazione: siamo al 1968 e la Cerati sceglie di documentare una realtà diversa, quella degli alienati, ponendosi sulle tracce di Franco Basaglia e di Agostino Pirella, e operando a Parma in accordo con Mario Tommasini per documentare le immagini dei manicomi, come si chiamavano allora. Fra le sue foto una resta emblematica, quella con l’uomo senza volto, le mani sul capo, seduto contro un muro grigio che diventerà anche un ben noto manifesto. E dopo ? Paesaggi e ritratti, paesaggi in Liguria e ritratti che esaltano i contrasti, che colgono le tensioni espressive e la deformazione dei volti. Un’altra ricerca, sul nudo, assoluta come in Arp, riprende le ricerche di Bill Brandt trasformandole in un ritaglio chiaro. Ma è il tema del ritratto che affascina la Cerati e su questo lei stessa ha più volte scritto; Carla usa fotografare senza interloquire con chi riprende, poi scatta e sono foto di lunga durata come quelle di Elio Vittorini o di Eugenio Montale, di Italo Calvino o di Pierpaolo Pasolini. Per la Cerati la chiave interpretativa del paesaggio, ma anche delle foto di architettura resta la suggestione informale e questo spiega il parallelo fra immagini delle Vele in Costa Azzurra (1999) e delle terre arate delle Langhe (1964). Un altro grande racconto della fotografa è quello sulle persone, sul lavoro, ma anche sull’ozio a Milano, e sono ritratti di operai, o di mendicanti, foto scattate attendendo che questi non recitassero se stessi davanti all’obiettivo; e sono foto di cortei di protesta, e della rivolta contro la repressione, e queste foto di strada dialogano con le ricerche dell’amico Uliano Lucas ma puntano, rispetto a lui che sceglie il conflitto politico, l’evento, puntano sempre sui personaggi, sulle figure, sui volti. Carla inventa però un genere di ritratto che è un documento civile e insieme spietato della società borghese a Milano al tempo del boom, è “Mondo Cocktail” (1972), che resterà nella storia delle immagini di quegli anni. Nei decenni seguenti Carla, dopo aver portato avanti il discorso sul ritratto e quello dell’impegno civile, affronta anche il tema del colore e quello della astrazione sviluppando diverse immagini che si legano alla geometria scoperta nelle foto di architettura. Così il percorso di Carla Cerati assume una propria unità, una propria coerenza: le foto non sono foto di cronaca, ma semmai ritratti intesi come segni di una situazione umana, così le immagini delle manifestazioni o quelle della borghesia. Il paesaggio è però forse la chiave per comprendere la fotografa; fin dalle origini negli anni ’60 il paesaggio si scompone, diventa una specie di superficie scavata, spessa di solchi e di fori come una “Natura” di Lucio Fontana, e questo rapporto con l’arte, da ultimo quella di Max Bill e in genere della astrazione dopo la Bauhaus, fa comprendere la ricchezza, la complessità di un intellettuale che ha combattuto le battaglie per la autonomia delle donne e di rivendicazione civile con una consapevolezza eccezionale. La stessa che si ritrova nelle sue notevoli immagini. Il catalogo della mostra, introdotto da uno scritto di Massimo Mussini, è edito da Skira.
Il volume propone per la prima volta uno studio comparato della diverse attività della celebre fotografa e scrittrice italiana. Carla Cerati esordisce nel 1960 come fotografa di scena, per concentrarsi poi sul reportage e sul ritratto. L'inizio come narratrice risale al 1973 con "Un amore fraterno". Anche se cronologicamente la Cerati fotografa precede la Cerati scrittrice, ciascuna delle due attività presuppone l'altra e la completa. Nel libro si è cercato di dare una panoramica pressoché completa dell'attività dell'artista considerando l'intrecciarsi e il compenetrarsi di ogni sua espressione. "La fotografia mi serve per documentare il presente, la parola per recuperare il passato", affermava Carla Cerati in un'intervista del 1977, ma da allora il suo uso della fotografia si è molto modificato e, pur muovendo dal tempo oggettivo attestato dall'atto dello scatto, si è trasferito decisamente verso la reinterpretazione soggettiva delle immagini e, dall'accettazione iniziale della "verità fotografica", è giunto alla sua negazione. |
Giovedì 8 marzo 2007 ore
18 - 21
Galleria Bel Vedere
Via Santa Maria Valle, 5 - Milano
inaugurazione della mostra
Carla Cerati
Punto di vista
a cura di Uliano Lucas
![]() Carla Cerati raccontata attraverso alcune delle immagini più rappresentative dei suoi trent'anni di fotografia: dai ritratti di intellettuali alle foto di teatro, dai particolari nudi femminili ai meno conosciuti paesaggi. Un percorso poliedrico da cui emerge la maestria nel modellare il bianco e il nero e lo sguardo originale di un'autrice che ci ha lasciato un'acuta testimonianza del suo tempo. Mostra:
Carla Cerati Punto di Vista a cura di Uliano Lucas,
Volume/catalogo Electa: Carla Cerati Punto di vista, testi di Fabrizio Dentice e Uliano Lucas, 120 pagine, 63 illustrazioni, 30 euro
Mostra: Galleria Bel Vedere
Tel + 39 02 45472468
info@belvedereonlus.it
Volume: Ufficio Stampa Libri Electa
tel +39 02 21563456/441 brognoli@mondadori.it
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http://www.marsilioeditori.it/schedalibro.htm?cdart=8401-3
<< In questo
romanzo Carla Cerati affronta, come già in Un matrimonio perfetto e nella
Cattiva figlia, un tema importante: quello dei rapporti affettivi e
generazionali, spesso intricati e dilanianti, dentro e fuori la famiglia.
Il libro ci fa partecipare a un appassionato dialogo tra due amiche sul
rapporto di un padre e una figlia che non si sono mai amati. L’intruso del
titolo è un quasi centenario che riappare, dopo più di vent’anni di
silenzio, nel momento in cui resta vedovo per la seconda volta. Ne esce
una storia di ostinata soggezione a un dovere filiale vissuto nel disamore
ma praticato come una sorta di missione. Un tema classico affrontato da un
punto di vista che lo rende estremamente attuale, oggi che vivere fin
oltre i cent’anni non costituisce più un’eccezione. Il romanzo, tra tante
domande, ne pone una centrale: quali cambiamenti, quante difficoltà dovrà
affrontare una persona non più giovane, poiché tale è la nostra
protagonista, che deve sobbarcarsi la cura di qualcuno ancora più avanti
negli anni? >>
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![]() Una selezione di immagini in bianco e nero realizzate dalla fotografa italiana tra la gente e nelle strade di Milano. Un approccio documetaristico e umano alla fotografia, che scopriva una città che andava trasformandosi in seguito al boom economico. http://www.hfdistribuzione.it/libro.asp?Codice=03BRB545
Il libro presenta un reportage sui vari aspetti della vita milanese nel decennio1960 - 1970. Le immagini, di grande rigore formale e tutte in
bianco e nero, saranno utili anche ai futuri sociologi e antropologi
Cit. © Carla Cerati, Milano 1960-1970, Barbieri Editore, Mandria, 1997, pagine 3 e 4 Bill Brandt diceva di aver superato una grave nevrosi grazie all'uso della macchina fotografica. Per me invece, fotografare ha significato la conquista della libertà e anche la possibilità di trovare risposte a domande semplici e fondamentali: chi sono e come vivono gli altri? Lavorano? E se si, dove lavorano? Quali sono i mestieri, le professioni e i luoghi in cui le svolgono? Come trascorrono il tempo libero? Erano i primi anni Sessanta quando cominciai a esplorare l'universo che stava fuori dalla porta di casa; con la Nikon nuova fiammante appesa al collo e un paio di pellicole nella borsa percorrevo la città, avida e curiosa come una bambina che ha appena imparato a leggere e che si meraviglia di saper interpretare quei simboli che fino a un momento prima le apparivano come un insieme di segni indecifrabili. Abitavo allora al primo piano di un edificio le cui finestre si affacciavano sulla strada, una via tranquilla dove però, a saper guardare, accadeva sempre qualcosa che meritava una sia pur piccola porzione di immortalità. Per questo tenevo la Nikon a portata di mano, con la pellicola inserita. Nacque allora in me la coscienza della vera natura di chi sceglie questo mestiere: il fotografo è un voyeur, vive spiando gli altri; ma non necessariamente gli altri sono persone: possono essere animali, oggetti, paesaggi, muri, scritte. Più avanti perfezionai questa intuizione arrivando a convincermi che il fotografo è un testimone del proprio tempo: il suo occhio discerne, filtra, suddivide, critica e censura tutto ciò su cui si ferma. All'inizio della mia esplorazione mi lasciavo guidare dall'estro: potevano attrarmi un quartiere sconosciuto, un temporale, una nevicata, due bambini che giocavano sul marciapiedi. L'idea di un libro su Milano nacque molto più tardi, starei per dire a lavoro ultimato, quando mi resi conto della quantità di materiale che via via era andata ad arricchire il mio archivio, quasi un diario segreto, un flusso continuo di appunti a futura memoria. Interessata al ritratto divenni un'assidua frequentatrice della libreria Einaudi dove in quegli anni si potevano incontrare poeti come Eugenio Montale, scrittori come Elio Vittorini, giornalisti come Enrico Emanuelli, architetti come Ernesto Rogers. Là dentro lavoravo indisturbata, anonima, protetta dalla macchina fotografica come da un oggetto magico che mi rendeva invisibile; mi muovevo senza rumore, mi facevo dimenticare: catturavo volti, situazioni, attenta più a queste che ai nomi illustri. La curiosità mi spingeva però ad affrontare argomenti e ambienti diversi: passavo dal mondo degli intellettuali a quello degli operai, dalla scuola di danza al cantiere, dai giovani della borghesia ai pendolari, dagli abitanti delle case di ringhiera ai frequentatori delle boutique del centro. Seguivo dei temi che sviluppavo nel corso del tempo, parallelamente, e che poi finivano per intrecciarsi formando una specie di affresco della società di quegli anni. Da ciascuno di questi temi nacquero dei racconti per immagini che nell'intenzione non dovevano neppure aver bisogno di didascalie. Però da questi racconti usciva l'idea di una società pacata, quasi immobile, che non poteva accontentarmi a lungo: sentivo il bisogno di situazioni drammatiche, estreme; da lì la scelta di cogliere frammenti da dietro le quinte durante le prove di spettacoli teatrali e, finalmente, grazie all'entusiasmo e all'appoggio di Franco Basaglia, l'opportunità di documentare la condizione degli internati negli ospedali psichiatrici italiani. Un'esperienza sconvolgente, indimenticabile, vissuta durante qualche mese di quello straordinario anno che fu il 1968: nacque così Morire di classe, libro-denuncia edito da Giulio Einaudi. Nel corso di questo lavoro sentii per la prima volta i limiti della macchina fotografica. che non poteva cogliere efficacemente l'ossessiva ripetitività dei gesti, le voci, le grida, I lamenti e, insieme a tutto questo, l'assurda musichetta trasmessa dalla filodiffusione: al tempo stesso mi convinsi che l'impatto di un'immagine ferma è molto più forte di quelle in movimento che ormai tutti i giorni consumiamo con indifferenza attraverso il piccolo schermo. Due anni dopo passai a un tema completamente diverso: il mondo dei frequentatori di cocktail party. Dal '70 al '72 seguii questo filone documentando l'eccentricità e l'opulenza di quel periodo che presto avrebbe assunto toni cupi. Quando ebbi raccolto materiale sufficiente per una mostra e un libro dal titolo Mondo cocktail, persi ogni interesse per quell'ambiente. Questo mi spinse a riflettere sul mio rapporto con il mondo, vissuto quasi esclusivamente tramite la macchina fotografica. Possibile che quasi tutti gli aspetti del vivere perdessero significato per me se non li potevo fissare sulla pellicola? Possibile che la mia curiosità si trasformasse in noia se non potevo registrare gli avvenimenti e riproporli, magari non subito, a un pubblico ancora da definire? Perso la fine degli anni Settanta cominciai a scegliere il materiale per il libro su Milano e a dargli una struttura organica: lo divisi in parti e in capitoli e a ognuno diedi un titolo che ne facilitasse la lettura. Un lungo racconto composto da duecentoventi immagini e che mostrava la metamorfosi di una città nel corso di due decenni. Si trattava di una visione molto personale, come sempre quando si scrive un saggio o un romanzo e si vogliono trasmettere idee e sensazioni. Ho pensato anche di farne un piccolo film. lavorando sulle fotografie con la macchina da presa. Una qualità indispensabile per chi fa un mestiere come il mio è la pazienza: bisogna saper aspettare il momento giusto per lo scatto dell'otturatore e rispettare i tempi di sviluppo delle pellicole, non impazientirsi allo scorrere dell'acqua durante il lavaggio delle stampe e curarne meticolosamente l'asciugatura se si vogliono ottenere i migliori risultati. Perché queste immagini uscissero una a una dal chiuso dell'archivio ho dovuto aspettare più di trent'anni: il materiale che presento qui per ricordarci come eravamo è quasi tutto inedito ed è soltanto una parte del grande affresco che spero uno giorno possa ricomporsi interamente. Se per Bill Brandt la fotografia ha sostituito l'analista, per me è stata soprattutto una grande passione. le ho dato tanta parte di vita ma mi ha enormemente arricchita. Carla Cerati
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"Italia doppie visioni" Scuderie del Quirinale 2 giugno - 29 agosto 2004 Herbert List e Mimmo Jodice, Sebastião Salgado e
Giorgia Fiorio, Testi di Francesca Sanvitale e Peter Schneider.
Roma, Scuderie del Quirinale
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In occasione dell'inaugurazione della mostra
abbiamo incontrato Carla Cerati
che ci ha parlato di lei e dei suoi lavori, non solo fotografici.
Prima ho fatto la moglie e la mamma.
Nel 1960 dopo alcuni anni di matrimonio, ho cominciato a scrivere narrativa e romanzi, e a fotografare.
Ho iniziato come fotografa di scena a teatro, nel 1962 con “La compagnia dei quattro”, di Franco Enriquez Glauco Mauri, Mario Scaccia e Valeria Morioni.
Ero stanca di fotografare figli e amiche ed ho pensato di trovare nuovi stimoli dal teatro.
Al Teatro Manzoni di Roma era in scena la commedia “Niente per amore” di Oreste del Buono.
Gli ho chiesto il permesso per fotografare durante le prove dello spettacolo.
Dopo aver visto i provini, Oreste del Buono mi ha detto di aver bisogno di alcune foto per la stampa.
E così, di colpo, sono passata al professionismo, senza passare per la gavetta !!!
Successivamente ho lavorato per trent’anni con il teatro, pubblicando pochi libri fotografici.
Ho sempre mantenuto la duplice attività di scrittrice e fotografa, ed in autunno (2004) uscirà il mio undicesimo romanzo che s’intitolerà “L’intruso” (Marsilio Editori, Venezia).
Ho pubblicato su "L'espresso" quando era di grande formato
e dava un bel risalto alle immagini.
La fotografia, allora, non era un riempitivo ma era la protagonista.
Era una soddisfazione vedere le pubblicate le proprie immagini, belle e grandi.
Io ho lavorato molto sui giovani e sulla gente, iniziando con un servizio sulla
scuola media e liceo pubblicato su "L'illustrazione italiana" - rivista
fondata dall'editore-giornalista Emilio Treves (Trieste,1834-Milano,1916) nel
dicembre 1873, con il nome di "Nuova
Illustrazione Universale".
Sulla città di Milano ho un menabò di oltre 200 fotografie e magari
ne farò un film.
Cosa l'ha maggiormente colpita dei mutamenti urbanistici e sociologici dagli anni '60 ad oggi ?
Io ho seguito molto i giovani, di varie classi sociali, a
partire dalla classe operaia.
Nel periodo del boom edilizio ho fotografato molto nei cantieri.
Trovo che in alcune foto ci sia un'innocenza in questi muratori o imbianchini,
anche giovanissimi, che non ho più riscontrato nel tempo. Una cosa che mi ha
colpita nelle foto fatte nei cantieri era il piacere di essere fotografati,
anche se poi i soggetti non ti chiedevano la foto... avevano piacere nel
lasciarsi immortalare... una cosa curiosa!
La gente è veramente molto cambiata.
Negli anni '60 lei ha lavorato anche con "L'espresso"...
Uno dei primi lavori che ho realizzato per "L'espresso" era
un'analisi sui giovani della borghesia italiana.
Localizzando una classe sociale che era la media-borghesia - dal popolare
all'intellettuale - ho notato che i giovani del liceo classico erano diversi dai
giovani immigrati che arrivavano a Milano in cerca di lavoro.
Erano profondamente diversi ! C'era proprio un modo di porsi, di vestirsi e di
pettinarsi molto diverso.
Tutto questo mi ha sempre interessata, proprio dal punto di vista antropologico.
Come si è accostata a questi giovani ?
Io, fotografando, ho sempre cercato di non esserci nella
fotografia.
Non ho mai chiesto la complicità del soggetto.
Ci sono fotografi che dicono "mettiti li che ti faccio una foto...", io lo
detesto!
Io voglio passare inosservata.
Sono capace di aspettare ore per fare uno scatto, in modo che la scena sia il
più naturale possibile.
Non volevo esserci e a me dava fastidio se dimenticavo il contenitore di un
rollino, che entrava nella foto...
era una cosa che non sopportavo perché la mia presenza non doveva esistere!
Ma sapere di essere fotografati, per poi apparire su "L'espresso", non condizionava i suoi soggetti ?
No !
Non mi chiedevano neanche dove sarebbe uscita la foto, non sapevano che facevo
le foto, io scattavo e basta.
E per lei cosa rappresentava l'atto di fotografare ?
Per me fotografare era un modo per capire megli il mondo in cui vivevo.
Mi interessava l'evoluzione sociale, urbanistica e politica della città perché
io ho sempre pensato che fotografare significasse esprimere delle idee e, per
questo, io non credo nell'obbiettività dell'obbiettivo.
Io credo che attraverso l'obbiettivo posso dire la mia opinione.
Io ho lavorato per 10 anni sugli intellettuali spagnoli...
Ricordo che dopo la morte di Franco in Spagna (il Capo di
Stato Francisco Franco muore il 20/11/1975) c'è stata l'incoronazione di Juan
Carlos (il 22/11/1975 alle 12,45
Don Juan Carlos è
nominato Re di Spagna) e ci hanno messi tutti in un pullman... eravamo 400
fotografi in una gabbia per galline.
Sono sicura che ciascuno ha realizzato una fotografia diversa, perché ognuno
voleva dire una propria cosa.
Anche Franco Fontana duranti i suoi workshops mette
gli allievi davanti ad un'unica scena e li invita a fare ognuno la propria
fotografia...
Si fa presto a dire che è la macchina a fare la
fotografia...
Sono l'occhio e la mente del fotografo che cercano e selezionano un'immagine
piuttosto che altre.
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E' stato difficile fare carriera in fotografia, essendo donna ?
No ! Quando ho cominciato io, nel '60, essere donna è stato
un vantaggio.
Molti direttori di giornale avevano il preconcetto per cui una donna era più
adatta a fare un certo tipo di reportage, ad esempio nella scuola, perché
secondo loro una donna si muove con più garbo, fa meno rumore, ed è più
psicologa rispetto ai colleghi uomini.
Questo mi ha aiutato solo per alcuni anni, anche perché ero l'unica donna
fotografo a Milano.
Negli anni a seguire la concorrenza è aumentata e sono aumentati sia i fotografi
che le fotografe.
Di fotografe donne come Carla Cerati, Giuliana Traverso, Shoba o Giorgia Fiorio, ce ne sono poche...
Ho notato che quando c'è un confronto generazionale tra
fotografi, come nel libro di questa mostra "ITALIA", i più giovani sembrano
rinchiudersi in se stessi, mentre per la mia generazione la fotografia ha
rappresentato un modo per rapportarsi con il mondo esterno.
Oggi la fotografia sta diventando qualcosa di molto solitario, come un occhio
che guarda se stesso e si rinchiude.
Tante donne fotografe lavorano sulle immagini video e quindi fanno un'opera più
introspettiva e concettuale, ma meno politica e d'assalto.
La difficoltà del fotografo a rapportarsi con gli altri è condizionata dal mutato concetto di privacy ?
Si è vero... ma problemi ne ho avuti anch'io con fotografie
degli anni '60.
Mi è capitato di fotografare un suicidio, una donna che si è buttata dal quinto
piano, proprio davanti a casa mia.
Era estate e non riuscivo a prendere il sole sul mio balcone di Milano, quando
ho sentito un tonfo...
c'erano le macchine parcheggiate e non capivo cosa era successo... mi ero
immaginata tutta un'altra storia...
e quindi sono corsa fuori a vedere, con la macchina fotografica al collo,
iniziando a scattare fotografie di questo cadavere... poi è arrivata la polizia
che mi disse che non potevo fotografare, ma io avevo già fotografato.
A quel punto ci si pone un problema: ti censuri prima di fare le fotografie o ti
censuri dopo ?
Io ho preferito censurarmi dopo, perché altrimenti bastava che decidessi di fare
still-life in studio e niente altro.
...ho anche ricevuto telefonate dai parenti della vittima che mi pregavano di
non pubblicare le foto ed io non le
ho fatte pubblicare. Passato qualche tempo ho utilizzato le foto in alcune
mostre.
Rimane comunque il grosso problema etico di certe immagini, come quelle delle
torture in Irak.
Qualche giorno fa, rimettendo in ordine una parte del mio archivio, ho trovato
una lettera che avevo scritto al "Corriere della Sera" nel 1983/84 a proposito
di un articolo di Giovanni Raboni che si indignava per una serie di immagini che
erano state pubblicate.
Nella lettera io scrissi dicendo di capire l'indignazione, ma è grave che certe
cose siano avvenute o il fatto che siano state documentate ? Sarebbe come dire
che se non le documentiamo, non sono avvenute ?
Per me è giusto documentare.
Senza le foto delle torture in Irak,
soprattutto ai danni di bambini, oggi
non avremmo questa reazione violenta.
Questo, però, non le sembra ipocrita nei confronti dello Stato americano che accetta di presentare in diretta TV l'esecuzione di persone condannate alla pena di morte, con la sedia elettrica ?
Si. C'è molta ipocrisia !
Io sono convinta che se le nostre fotografie sono servite ad aiutare Franco
Basaglia per realizzare una legge per far chiudere gli ospedali psichiatrici,
così come erano intesi allora, vuol dire che la forza di un'mmagine è ben
diversa dai testi scritto. Le parole si possono smentire! Le immagini no!
Ma la realtà non esiste se non per come noi la
percepiamo, intendiamo o rappresentiamo...
L'occhio seleziona ed inquadra porzioni della realtà, che poi il cervello
riassembla consentendoci di avere una visione d'insieme della realtà che, però,
non è la realtà.
La fotografia, così come il video, propone solo una o più inquadrature del reale
davanti all'operatore.
Il fotografo non potrà mai presentare un'immagine oggettiva della realtà,
ma ne offrirà sempre una visione soggettiva, parziale e tal volta perfino
strumentalizzabile.
La didascalia media
che include la fоtografia nell'ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa.>>
Un esempio eloquente ne è il famoso olio su tela di Magritte intitolato "Ceci
n'est pas une pipe".
(R. Magritte, Ceci n'est
pas une pipe, 1926)
Si ma a meno che una fotografia non sia stata manipolata, il fatto fotografato è
comunque esistito.
Certamente è una nostra scelta quella di evidenziare alcuni aspetti a scapito di
altri.
Mi viene in mente una foto di Tano D'Amico (nato a
Filicudi nel 1942), dove una coppia naviga sul Tevere con atteggiamento sereno,
curioso e affettuoso. Solo nella didascalia si legge che trattasi di due
ricoverati dell'ospedale psichiatrico romano S. Maria della Pietà, in gita sul
Tevere nel 1978.
La loro vita non è certo solo questo.
Ma presentando solo questa foto, si lascia intravedere solo un aspetto tra i
tanti della vita asilare.
Foto di Tano D'Amico, Le eternanee (ass.ne culturale TAM TAM )
© Ricoverati di S. Maria della Pietà in gita sul
Tevere, Roma 1978
Ma da cosa si capisce che sono matti, in quella situazione ?
Io sono non sono stata interessata a fotografare gli ospedali psichiatrici dopo
la loro apertura perché...
che cosa distingue un malato psichiatrico in libertà ? Cade l'interesse !
Se fai un lavoro di denuncia ha senso vedere il malato nella struttura
repressiva che porta ad ulteriore sofferenza questo malato. Ci sono situazioni
drammatiche che fuori dal proprio contesto non hanno significato.
Lei che cosa ha voluto denunciare, con il suo lavoro sulla realtà manicomiale
?
L'idea di partenza era la stessa che mi spingeva a
fotografare il teatro: il palcoscenico della felicità.
Il fotografo è sempre alla ricerca di immagini forti.
Quando poi sono entrata in contatto con la realtà degli ospedali psichiatrici,
ho provato un profondo senso di pena davanti a tanta sofferenza. La prima volta
che sono entrata in un ospedale psichiatrico, è stata in quello di Gorizia,
diretto da Franco Basaglia, dove non c'erano più le camice di contenimento, però
c'era la miseria con gente ricoverata da cinquant'anni che non si rendeva più
conto che non c'erano più i muri di recinzione ne le sbarre. Erano talmente
condizionati , mi raccontava Basaglia, che anche durante la loro passeggiata,
arrivavano dove una volta c'era un muro e tornavano indietro perché per loro il
muro continuava ad esserci.
Vite distrutte negli ospedali psichiatrici, con mezzi coercitivi
Facemmo la prima
mostra
fotografica, organizzata da
Franco Basaglia a
Parma nel 1968.
In coincidenza con la mostra ci fu un'imponente
manifestazione degli infermieri precari, con un contratto a termine, che
hanno sfilato per le strade di Parma indossando le camicie di forza, per
richiamare l'attenzione della gente.
Gli stessi infermieri spiegarono che un
operatore da solo, di notte, in un reparto di anche 70 malati agitati, non poteva
tenere tutto sotto controllo senza le camicie di forza. Il loro lavoro
era necessario e indispensabile per evitare questa coercizione.
A quanto ci
dissero gli infermieri, i malati erano talmente abituati a vedere in loro degli
aguzzini che ne avevano paura quando si avvicinavano.
Negli ospedali repressivi si usava la "strozzina" che era un lenzuolo bagnato e
attorcigliato che veniva stretto al collo del paziente fino quasi a soffocarlo.
Legavano i pazienti ai letti con le cinghie di contenzione...
Erano cose terribili e per questo i degenti erano terrorizzati.
Questo avveniva anche nell'ospedale di Franco Basaglia o li era diverso ?
Franco Basaglia aveva cambiato tutto, c'erano ancora malati sedati con gli psicofarmaci, però non erano legati e avevano le scarpe... In altri ospedali era una cosa terribile, con i malati senza biancheria, senza scarpe, con le camice di forza, per tre mesi senza levargliele e, quando le cambiavano, i malati erano pieni di piaghe sotto le ascelle ed era una cosa veramente terribile.
Questo servizio fotografico è nato perché Franco Basaglia ha ingaggiato Lei e G. Berengo Gardin ?
No, no siamo stati ingaggiati da Basaglia.
Nel 1967 Basaglia curò il volume "Che cos'è la psichiatria ?", nel 1968 pubblicò "L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico", con la casa editrice Einaudi.
Tramite la casa editrice mi sono messa in contatto con lui e scoprii che stava cercando il modo di fare un libro fotografico sulle istituzioni repressive. E' stato felicissimo di questa combinazione ed ha aiutato me e Gianni Berengo Gardin ad entrare in vari ospedali.
Nel 1969 Franco Basaglia lasciò la direzione dell'Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia e, dopo due anni passati a Parma alla direzione dell'ospedale di Colorno, nell'agosto del 1971 divenne direttore del manicomio di Trieste, il San Giovanni, dove c'erano quasi milleduecento malati.
Quando Voi entravate negli
ospedali si sapeva chi vi mandava e si conoscevano le idee di Basaglia...
quindi il Direttore che vi lasciava entrare, sapeva che avreste fatto una
fotografia di denuncia.
Non tutti.
All'ospedale psichiatrico di Firenze siamo entrati una volta sola, grazie all'aiuto di due psicanalisti Sergio Finzi e Virginia Finzi Ghisi. Il giorno dopo ci avvertirono di non tornare perché alla direzione dell'ospedale avevano capito che cosa stavamo facendo. L'esperienza nell'ospedale psichiatrico di Firenze è stata per me quella più traumatizzante... ci dissero anche che eravamo stati fortunati ad entrare in luoghi dove avevano appena fatto le pulizie e, di solito, c'erano circa un metro di escrementi nei corridoi... era comunque terrificante vedere la sofferenza di queste persone...
A Ferrara non siamo riusciti a fotografare niente.
Perché il direttore ci faceva seguire a vista senza farci vedere niente.
Guardando poi la cartina topografica del luogo ci siamo accorti che non ci
avevano fatto vedere interi reparti.
A Parma abbiamo fatto foto interessanti ma quando gli
infermieri si sono accorti di cosa stavamo facendo, ci hanno chiesto la consegna
dei rollini e qui è intervenuto Gianni Berengo Gardin che, essendo più sgamato
di me, aveva preparato dei rullini vergini e gli ha dato proprio quelli,
mettendo i rullini impressionati dentro un ombrello,
con il quale siamo usciti tranquillamente senza che nessuno si accorgesse di
nulla.
Le vostre fotografie come uscirono la prima volta ? Sul libro Einaudi, sui giornali o in mostre ?
Direttamente sul libro "Morire di classe" di Einaudi, a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia.
Credo che la frase gattopardesca
"bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima"
possa ben adattarsi alla reazione che certe istituzioni ebbero contro le
innovazioni proposte da Franco Basaglia.
Come reagirono all'uscita del Vs. libro quelle istituzioni che ambivano a
mantenere inalterato sia il proprio potere che le condizioni ospedaliere da
gestire e da voi denunciate non più ammissibili ?
Non conosco la reazione delle istituzioni.
Io e Gianni Berengo Gardin ricevemmo un premio per quei reportage.
Chi operò la scelta finale delle fotografie da
pubblicare ?
Le foto furono scelte direttamente da Franco Basaglia.
Ricordo inoltre che nell'ospedale diretto da Franco
Basaglia, c'era tutti i giorni un'assemblea tra i malati ed i medici che
tendevano a rendere autonomi i degenti meno gravi.
Franco Basaglia ci chiese di spiegare ai malati i motivi per cui volevamo
fotografarli, chiedendo il loro consenso.
Io e Gianni spiegammo loro quello che intendevamo fare e che volevamo anche
aiutarli ad uscire da una situazione difficile. Alcuni malati sottolinearono il
fatto che noi avremmo guadagnato dei soldi dalle loro immagini
e che dunque volevano dei soldi anche loro. Noi li invitammo a farci una
proposta e loro ci chiesero una cifra minima, tipo 30-40 mila lire che noi gli
abbiamo subito dato. Dopo di ché loro si sono lasciati fotografare.
Dunque per le foto avevamo il consenso dei malati.
I soggetti però, sapendo di essere fotografati, non si mostravano per come loro volevano apparire, mascherando la cruda realtà di tutti i giorni ?
Alle assemblee partecipavano solo i malati quasi autonomi, in grado di andare a vivere in case-famiglia, una volta usciti dall'ospedale.
Noi siamo stati liberi di fotografare dove e come volevamo e nell'ospedale di Basaglia, come lui stesso spiegava, ci finivano solo i poveri perché i ricchi andavano nelle cliniche private.
Da qui il titolo "Morire di classe".
La cosa palpabile era la miseria.
La miseria dei muri e delle toilette c'era anche nell'ospedale di Basaglia, dove lui era attento che i malati non fossero martirizzati ma c'era una carenza istituzionale pazzesca.
Allora vigeva una legge per cui se una persona era ricoverata in un ospedale psichiatrico per più di 15 giorni, gli veniva scritto sui documenti "Pericoloso a se e agli altri", ed era marchiato lui ed i suoi discendenti.
Basaglia per aggirare questa sorta di marchiatura, teneva i degenti per 14 giorni, poi li rimandava a casa per un giorno, e successivamente li riaccoglieva... in modo che non avessero scritto sui documenti che erano stati detenuti in un ospedale psichiatrico.
Negli ospedali, oltre ai malati, c'erano anche persone sane non accettate dalle proprie famiglie ?
Si. Una persona che era ricoverata subiva vere e proprie torture, era sottoposta a vari mezzi di costrizione e doveva ingerire psicofarmaci in continuazione, per cui anche se non era malato ci poteva facilmente diventare.
Gli infermieri di Parma, durante
una manifestazione, hanno fatto vedere come venivano legati al letto i malati,
e ricordo che uno di loro pur sapendo che gli era stata messa una camicia di
forza non stretta, a puro scopo dimostrativo, ha avuto una crisi isterica.
Avete fotografato i degenti solo quand'erano negli ospedali o anche quando ne sono usciti, magari per documentare le difficoltà del loro adattamento alla vita normale ?
No. quello lo hanno fatto altri fotografi ed a me non interessava, anche perché è normale che nell'arco di una giornata una persona possa avere qualche espressione da ebete e, se mostrassimo solo quelle, equivarrebbe a marchiare quella persona come un matto... ma come si fà...
Cosa pensava Basaglia della mancanza di quelle strutture atte a riabilitare un ospedalizzato, facendolo rientrare ed reintegrare nella società ?
Basaglia ha concepito le "case famiglia".
Agostino Pirella ha formato case famiglia ad Arezzo, dove molti ex internati si gestiscono autonomamente la propria vita, avendo formato specie di famiglie dove uno soccorre l'altro.
Il dramma delle strutture psichiatriche è che, una volta che sono state chiuse, tutti i problemi dei singoli degenti sono ricaduti sulle famiglie che, naturalmente, non sono sempre in grado di affrontarli in maniera adeguata, anche per mancanza di formazione e mezzi specifici.
A questo proposito Basaglia avrebbe voluto dare un appoggio alle famiglie.
Lei ha fotografato solo in Bianco e Nero o anche a colori ?
La mia generazione è cresciuta con il bianco e nero. Io penso che nelle foto drammatiche e di guerra il colore sia una stonatura, mentre il bianco e nero si adatta meglio a rappresentare la drammaticità degli eventi.
Voi avete fotografato individui con delle caratteristiche fisiognomiche che denotavano una diversità del soggetto che era quindi di per sé fotogenico, nel senso che attirava l'attenzione su di sé anche senza essere rappresentato in bianco e nero. Cosa risponde a quanti potrebbero pensare che fotografare un persona palesemente diversa, faciliti il lavoro del fotografo.
Beh. Dipende sempre da come il soggetto viene fotografato.
Io non lo sò se è giusto pensare che qualcuno possa fotografare il "diverso"
perché è più facile.
Forse lo fanno perché essendo meno consueto è più interessante.
Poi bisogna vedere la profondità di chi fotografa perché con lo stesso
apparecchio si possono fare sia foto banali che foto belle.
Io ho fatto una mostra a Paternò
in Sicilia intitolata "scena e fuori scena", con un bel catalogo edito da Electa.
(La mostra è stata allestita alla Galleria d'arte moderna dal 19 ottobre al 30
novembre 1991, n.d.r.)
Guardando il ritratto che avevo fatto ad Eugenio Montale in casa sua a Milano,
mi era sembrata una foto di scena, perchè c'era un anziano signore su una
poltrona, in un bell'ambiente, con una pianta di incisa
(Artocarpus communis = incisa o albero
del pane, n.d.r.) dietro, e sembra un'immagine ripresa sul
palcoscenico.
Da questa constatazione mi è venuta l'idea di operare un raffronto tra immagine
di teatro ed immagini reali,
anche per vedere qual'era la più falsa, la più teatrale.
Io ho fotografato grandi semiologi e psicanalisti ad un convegno di semiologia a
Milano, raffrontando le foto di due attori ripresi a Sant'Arcangelo di Romagna
nel teatro in piazza, con due grandi psicanalisti. Non si capisce quali siano
più pazzi o bizzarri. Non si capisce se la foto più reale sia quella degli
psicanalisti o quella degli attori.
Partendo da questa idea ho continuato a fotografare e raffrontare la realtà e
scena.
Ed è un lavoro che mi è piaciuto tantissimo.
Avete avuto problemi per esporre le vostre immagini a Parma ?
No. Io non ne ho mai avuti.
Devo dire che quando Basaglia ha messo in piedi questa mostra negli ex gabinetti pubblici a Parma, insieme con l'assessore Tommasini che ci ha fatto fotografare l'occupazione del manicomio di Colorno, era un ambiente squallidissimo piastrellato di bianco, vecchio, decadente...
Erano stati convocati pure gli infermieri e nessun parente dei malati venne a vedere la mostra, perché la malattia mentale era vissuta come una vergogna...
Oltre a "Morire di classe", quali sono i suoi lavori più conosciuti ?
I nudi femminili.(si veda il libro "Forma di donna" con 34 fotografie di Carla Cerati, Milano, Mazzotta, 1978).
A "Mondo coktel" dedicato ai vernissage e alle
inaugurazioni di mostre, dove tutti sono con i bicchieri in mano, e dove
qualcuno si pianta davanti al buffet con tanto di borsa in mano.
Allo studio Marconi di Milano ho visto una forma di Grana sparita in pochi
minuti, i visitatori sembravano delle cavallette affamate e sarebbe stato
interessante riprendere con una cinepresa la disfatta della forma di formaggio.
Lei ha mai insegnato a fotografare ?
No. Mi hanno proposto di fare stages di nudo a Santa Maria al Bagno, in Puglia, ma non è stato possibile avere una modella disposta a posare nuda perché nel gruppo di corsisti c'era qualche maschio. Per questo avevano la pretesa che facessi un corso di nudo con un manichino da vetrina. Mi sembrò impossibile e facemmo tutt'altro.
Lei oggi non racconta più con le immagini ma con la
parola, ed è una scrittrice affermata...
Cosa accomuna o differenzia la narrativa alla fotografia?
Con la macchina fotografica non puoi raccontare il passato ma solo il presente.
Con la scrittura puoi scavare nella memoria, puoi inventare e puoi ricostruire, cose impossibili con la fotografia.
Ma ci sono i set fotografici e perfino Romano Cagnoni ha fatto posare soldati in guerra, per cui non si capisce più molto bene quale sia la loro immagine reale...
A me non interessano i set che comunque ricostruiscono il presente ma non possono rievocare il passato.
Con la fotografia si può ricostruire o reinventare una realtà, ma questo è diverso dal documentare una realtà.
Se io potessi rievocare il fantasma di mio fratello, morto a nemmeno quarant'anni, e fotografarlo come sarebbe oggi, allora sarebbe una cosa interessante.
Come e quando è passata dalla fotografia alla narrativa ?
Il mio primo libro l'ho scritto dopo la morte di mio fratello a cui ero molto legata.
Quello che racconto nel libro non lo avrei potuto raccontare con fotocamera perché lui non c'era più.
Questa è la diversità... Io ho potuto ricostruire sensazioni, ricordi, sofferenze, malintesi....
Perché ho iniziato a scrivere ?
Perché io scrivevo già da ragazzina ed il mio primo romanzo l'ho cominciato a
dieci anni.
Poi rileggendone le prime pagine mi annoiavo e pensavo a quanto si sarebbero
annoiati gli altri, e lo abbandonai.
Tutti noi abbiamo tenuto un diario...
No. Io non sono mai riuscita a tenere un diario...
Nei momenti più amari ho magari scritto qualcosa, ma non un diario continuativo.
Quanto il suo essere scrittrice è stato influenzato dall'essere stata una fotografa ?
C'è gente che dice che io scrivo in maniera visiva...
Roland Barthes ha scritto di aver sempre odiato la propria immagine finché un'eccellente fotografa non gli ha inviato una fotografia che ha pubblicato nel libro "Barthes di Roland Barthes" (a pagina 33, n.d.r.). La foto la scattai alla libreria Feltrinelli di Milano durante la presentazione di un libro, con Arbasino ed altri... Gli mandai la foto a Parigi e lui mi ringraziò dicendo di essersi
finalmente riappacificato con la sua immagine.
"Da
bambino mi annoiavo molto e spesso. (Cit. Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, Torino, ed. Giulio Einaudi 1980, pagina 32)
|
Le immagini manicomiali di Carla Cerati sono pubblicate anche nel sito
con
Piccola
antologia foto-testuale
Citazioni di Franco Basaglia (a cura di Giovanna Gallio e Mario Colucci) L’uomo e la cosa (di Franco Rotelli (1983) La comunità possibile (di Mario Colucci, Peppe Dell’Acqua, Roberto Mezzina (1988)) I giardini di Abele [spot video] di Sergio Zavoli (Gorizia, 1967)
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Nello stesso sito del
Dipartimento di Salute Mentale di Trieste Di quest'ultimo segnalo la mostra GLI ANNI DI BASAGLIA: Spilimbergo Fotografia 2004
Titolo: Claudio Erné – Gli Anni di Basaglia Curatore: Fabio Amodeo Sedi: Palazzo Frangipane, Tarcento Date: 31 luglio – 29 agosto 2004
– Villa Ciani, 33090 Lestans (PN) presidente: Elio De Anna (Presidente della Provincia di Pordenone) direttore: Walter Liva segreteria: Lara Zilli Tel fax: 0427 91453 Sito: http://www.craf-fvg.it/ita/home.asp Email: craf@cubenet.net
Le immagini sono state realizzate da Claudio Ernè nel periodo 1970 – 1983 nell'ambito dell'Ospedale Psichiatrico di Trieste, e ne documentano la vita dall'arrivo di Franco Basaglia alla conclusione dell'opera di riforma con la chiusura dell'ospedale stesso. Oltre ai ritratti di Basaglia, le fotografie documentano le modifiche intercorse in quel periodo nella vita dei pazienti, il progressivo estendersi delle attività legate all'apertura dell'ospedale alla società esterna, i personaggi che hanno visitato in quegli anni la struttura per documentarsi sull'esperienza (psichiatri come David Cooper, artisti come Rafael Alberti, filosofi come Guattari) o che hanno partecipato ai reseau della psichiatria, tra il 1973 e il 1977, o artisti che hanno operato nei laboratori dell'ospedale e cantanti che hanno partecipato ai concerti, come Gino Paoli o Miranda Martino.
|
<< "Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo". Questa è la motivazione con la quale il malato mentale entra in manicomio; in un luogo la cui funzione é - in questa motivazione stessa - già precisata come azione di tutela, di difesa del sano di fronte alla follia e dove il malato assume un ruolo puramente negativo, come se il suo rapporto con l'istituzione si svolgesse al solo livello della sua eventuale pericolosità. Da ciò deriva che se il malato - prima di essere considerato tale - è da ritenersi soprattutto pericoloso, le regole su cui l'istituzione che dovrebbe occuparsi della sua cura, si edifica, non possono essere istituite che in funzione di questa pericolosità e non della malattia di cui soffre. Per questo la figura del malato mentale, così come appare abitualmente nei nostri ospedali, è quella dell'uomo oggettivato in un istituto, la cui organizzazione ed efficienza sono sempre risultate più importanti della sua riabilitazione. >> Cit. Franco Basaglia, Che cos'è la psichiatria
|
"La foto di copertina, Basaglia l'ha sempre scelta per i manifesti delle mostre..." ![]() Foto di Carla Cerati © Morire di classe, Einaudi 1969 |
«...l'istituzione
manicomiale ha in sé, nel suo carattere violento coercitivo discriminante,
una più nascosta funzione sociale e politica: il malato mentale, ricoverato
e distrutto nei nostri manicomi, non si rivela soltanto l'oggetto della
violenza di un'istituzione deputata a difendere i sani dalla follia; né
soltanto l'oggetto della violenza di una società che rifiuta la malattia
mentale; ma è insieme, il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo
di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in
balia dell'istituto deputato a controllarlo. (cit. Franco Basaglia in "Morire di classe", Torino 1969) Per saperne di più: http://www.photographers.it/articoli/gardin.htm
|
Per non dimenticare a cura di Franca Ongaro Basaglia © Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998 Testo tratto dall'introduzione di Franca Ongaro Basaglia << Se non si parte da queste immagini che, in quegli anni, spalancarono le porte su una realtà аi più sconosciuta e, dagli addetti ai lavori, ritenuta "naturale", credo non si possa capire la durezza di questa battaglia: contro l'istituzione, contro la psichiatria che scientificamente la avallava, contro la società che ne richiedeva l'esistenza per mantenere l"ordine", la netta separazione fra unа normа basata sull'efficienza e l'esclusione degli elementi di disturbo o di scarto.
Queste immagini che trent'anni fa hanno
fatto scalpore e hanno promosso l'indignazione di molti, vengono ora
ripubblicate in una nuova versione, per non dimenticare ciò che può
fare l'uomo all'uomo, ma anche ciò che possono fare scienza e società in
nome della tutela, della custodia, della cura. Ciò che possono fare
l'autorità e il potere, l'oggettivazione, la spoliazione di ogni diritto
elementare. Ciò che può fare l'istituzione
totale, psichiatrica e non,
quando pretende di controllare ogni aspetto della vita e inibire ogni
bisogno e desiderio della persona, in una serializzazione utile
all'efficienza dell'organizzazione ma distruttiva per il tutelato. Queste immagini devono essere guardate ancora, perché questa realtà esiste ancora in molti manicomi ancora in vita e in altri in cui si va velocemente cambiando solo l'etichetta mentre la sostanza resta identica. Queste immagini devono essere guardate per provocare l'indignazione che allora provocò l'incontro diretto con questo mondo chiuso in cui tutto il negativo della istituzione veniva imputato alla malattia; l'indignazione che allora portò un gruppo di psichiatri e operatori anomali а rifiutare il mandato sociale di gestire dei lager fingendo che fossero luoghi di cura; la passione civile, etiсa e politica che portò anche tanti giovani studenti e volontari a lavorare per il cambiamento, producendo una trasformazione impensabile in persone che risultavano annientate dalla forza, dalla sopraffazione, dalla violenza quotidiana di un ordine istituzionale che non teneva conto di loro. >>
|
Questo testo suggerisce al lettore dei ben precisi
parametri interpretativi con cui valutare i testi e le foto del libro.
Ma qualcosa non torna...
<<
Un modo
ancora più semplice per capire le nostre sensazioni non corrispondono che a
una parte della realtà |
La "chiave di lettura"
fornita al lettore da Franca Ongaro Basaglia
Il
lettore viene dunque condizionato ad uno stato di temporanea cecità
Questo è evidente in due
foto di "infermieri" che vengono proposti
come se fossero dei "matti",
Il lettore non debitamente
informato, recepisce solo una parte del messaggio presente nelle foto: |
Dall'indice delle fotografie, pubblicato a pag. 79 del libro
Per non
dimenticare
1968. La realtà manicomiale
di “Morire di classe”
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
si evince che le foto pubblicate alle pagine 28 e 29
sono state scattate, al pari di altre fotografie, nell'Ospedale Psichiatrico Provinciale di Parma.
Questo non corrisponde ad una descrizione oggettiva dei fatti
Come già detto, le due immagini sono state riprese durante una
pubblica manifestazione a Parma
volta a denunciare lo stato di detenzione dei "malati di mente"
all'interno delle strutture psichiatriche.
Il soggetto ripreso non è un degente costretto in
una camicia di forza
ripreso all'interno del suo "naturale" ambiente manicomiale...
ma è un "infermiere precario" manifestante a cui è stata fatta indossare una
camicia di forza,
per mostrare e denunciare uno dei trattamenti di costrizione subiti dai
"malati di mente".
Si tratta dunque di una "simulazione" non dichiarata
e decontestualizzata che,
facendo leva su quello che in psicologia della percezione è noto come effetto
mascheramento,
- in cui una forte impressione impedisce la percezione di soglie inferiori -
induce il lettore a fruire di queste due immagini al pari di tutte le altre,
con un approccio drammatico e cruento con quanto (appariscente ed insolito) è in
esse
rappresentato,
nella convinzione pilotata, che un uomo stia veramente soffrendo davanti
all'obiettivo fotografico.
Questa falsificazione della realtà è aggravata dal fatto che
le due immagini non appaiono in "Morire di classe",
e sono dunque il frutto di una meditata selezione operata per aggiungere pathos
al libro di Basaglia che,
con questa operazione, rischia di perdere credibilità agli occhi dei lettori
meno esperti,
che non hanno operato un confronto tra "Morire di classe" e "per non
dimenticare...".
La responsabilità di questa disinformazione non è certo da
attribuirsi al fotografo, Gianni Berengo Gardin,
che ha scattato tutte le sue immagini nell'ambito di un reportage ad ampio
respiro
finalizzato ad una dichiarata e ben precisa operazione di "denuncia sociale"
voluta da Franco Basaglia
che è scaturita, negli anni '60, in varie manifestazioni di piazza.
La responsabilità della disinformazione e mistificazione
operata in particolare su queste due immagini
è invece da far ricadere su chi ha selezionato e pubblicato le foto presenti nel
libro
che sono state impaginate in modo da rendere difficile il doveroso distinguo tra
i diversi soggetti proposti
nei confronti dei quali viene proposta una lettura univoca, parziale e dunque
"falsa".
Per una futura riedizione di questo libro, che ha certamente dei nobili fini ed
una buona stampa e grafica,
è auspicabile che le foto "simulate" non siano più inglobate e confondibili con
le foto "reali"
e che siano invece accompagnate da un testo che aiuti ad approfondire i temi ed
il contesto che rappresentano.
Foto di Gianni Berengo Gardin, pubblicata a pagina
28
del libro
<< Per non dimenticare 1968. La
realtà manicomiale di “Morire di classe”
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
Foto di Gianni Berengo Gardin, pubblicata a pagina
29
del libro
<< Per non dimenticare 1968. La
realtà manicomiale di “Morire di classe”
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
Queste foto pare che appaiano nel film di
Salvatore
Agosti "Non ho una lancia per uccidere il leone",
tratto dal libro di G.
Dell’Acqua
"Non ho l’arma che uccide il leone. Storie del manicomio di Trieste.",
Ed. Libraria, Trieste - 1980 - Salvatore Agosti è stato regista anche del film "Matti
da slegare".
"Le conseguenze dalla menzogna sono necessariamente più importanti per la fotografia di quanto potrebbero mai esserlo per la pittura" perché "le fotografie avanzano pretese di veridicità che non potrebbe mai avanzare un quadro. Un quadro falso (cioè un quadro con un'attribuzione sbagliata) falsifica la storia dell'arte. Una
fotografia falsa (cioè una foto ritoccata o manomessa, o accompagnata da una
falsa didascalia) falsifica la realtà. |
|
Walter Benjamin in "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica", Einaudi 1966/2000, a proposito delle "indicazioni implicite nell'autenticità della fotografia" scrive:
<<
...Non
sempre sarà possibile eluderle con un reportage i cui cliché comportano
semplicemente che vengano associate per l'osservatore con indicazioni
linguistiche. << ...Non
colui che ignora l'alfabeto, bensí colui che ignora la fotografia, - è stato
detto, - sarà l'analfabeta del futuro. |
R.
ARNHEIM R. Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano
2000 |
trad. it. Arte, percezione e realtà, Giulio Einaudi Editore s.p.a., Torino 1978/2002 |
trad. it. Un approccio ecologico alla percezione visiva, Bologna, Il Mulino, 1999. |
LA TEORIA ECOLOGICA DELLA PERCEZIONE Aspetti
filosofici e teorici nella riflessione di J. J. Gibson
|
ha un formato più grande e presenta testi e foto in una veste grafica più snella e meglio leggibile.
Immagine e testo NON
presenti in
<< PER NON
DIMENTICARE...>>
L'immagine in basso
NON è presente in
<< PER NON
DIMENTICARE...>>
Testo NON presente in
<< PER NON
DIMENTICARE...>>
Importante
segnalazione NON presente in
<< PER NON
DIMENTICARE...>>
|
La legge 13/5/1978, n. 180, ha posto fine al vecchio sistema manicomiale basato essenzialmente sulla legge n. 36 del 14 febbraio 1904, intitolata "Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati". Alcuni testi utili a
comprendere il clima politico e sociale "La fabbrica della follia : relazione sul manicomio di
Torino" "Portami su quello che canta : processo a uno
psichiatra" Una falsa alternativa alla "fabbrica della follia":
l'espediente gattopardesco della provincia di Torino
|
Storia fotografica della fine dei manicomi http://jcom.sissa.it/article/art030203_or.html |
Carla Cerati
Nata a Bergamo, vive e lavora a Milano. Comincia la professione nel 1960 come fotografa di scena con il regista teatrale Franco Enriquez. Allarga la sua sfera d’interessi al reportage sulle più varie sfere sociali, includendo il paesaggio urbano; nel corso degli anni dedica particolare attenzione al ritratto, ai giovani, agli intellettuali, agli emarginati. Come narratrice esordisce nel 1973 presso Einaudi con Un amore fraterno, finalista al Premio Strega. Da allora pubblica numerosi romanzi, tradotti in diverse lingue, che le procurano un affezionato pubblico che apprezza la sua capacità unica di ritrarre i fatti quotidiani elevandoli alla sensibilità universale.
Pubblicazioni:
Un amore Fraterno,
Einaudi
1973
(Finalista al Premio Strega)
Un matrimonio perfetto,
Marsilio 1975
(Premio selezione Campiello)
Scellamozza,
Einaudi, 1975
Morire di classe,
Einaudi, 1976
La condizione sentimentale, Frassinelli
1977
(Premio Radio
Montecarlo)
Forma di donna, Mazzotta, 1978
Uno e l’altro,
Rizzoli 1983
(Premio Milano e
Città della Scala)
La barca gialla,
Einaudi, 1985
La cattiva figlia, Frassinelli
1990
(Premio Comisso)
Un matrimonio perfetto, Frassinelli, 1991
La perdita di Diego, Frassinelli, 1992
(Finalista al Premio
Strega)
Un amore fraterno, Frassinelli, 1993
Legami molto stretti, Frassinelli, 1994
L’amica della modellista, Frassinelli, 1996
La cattiva figlia, Frassinelli, 1996
Il sogno della bambina, Frassinelli, 1997
Grand Hotel Riviera, Frassinelli, 1998
La condizione sentimentale, Frassinelli, 1999
La seconda occasione, Frassinelli, 2001
La cattiva figlia, Sperling Paperback, 2001
L'intruso, Marsilio Editori, 2004
Segnalazione © Luca B. Pagni, Roma 2004