Carla Cerati
http://www.marsilioeditori.it/focus-cerati.htm

 


Carla Cerati fotografata da Grazia Neri
http://milano.corriere.it/arte_e_cultura/articoli/2007/03_Marzo/08/cerati.shtml

 


 

Storie di Fotografia 3

CONVERSAZIONI

A cura di Silvia Paoli e Giorgio Zanchetti

 

14 gennaio 2010, ore 17.30

Incontro con

CARLA CERATI

Nel corso dell’incontro verranno proiettati video e filmati d’epoca inerenti la sua esperienza e il suo lavoro di fotografa.

 

Sala consultazione
del Civico Archivio Fotografico
Castello Sforzesco, Milano

 INGRESSO LIBERO SINO AD ESAURIMENTO DEI POSTI DISPONIBILI
 

Continua con questa seconda parte il terzo ciclo di incontri “Storie di Fotografia”, organizzato dal Civico Archivio Fotografico e dal Dipartimento di Storia delle Arti, della Musica e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Milano. Nato nel 2007 dalla collaborazione tra le due istituzioni, il ciclo ha presentato diversi studiosi e critici, spesso di fama internazionale, che si sono interessati a tematiche di confine tra la fotografia e altri linguaggi espressivi e, in ultimo, al tema della fotografia come documento. Secondo una formula già sperimentata nel corso degli anni precedenti, agli incontri di carattere storico con studiosi e critici dell’arte e della fotografia, fanno ora seguito sei appuntamenti con artisti e fotografi, che presenteranno, attraverso una conversazione con i curatori del ciclo e con un’ospite, un percorso sulle tematiche più importanti inerenti il loro lavoro e la loro ricerca. 

Nata a Bergamo, Carla Cerati vive e lavora a Milano. È da tempo una figura di fondamentale importanza nel panorama della fotografia italiana e internazionale e nel mondo culturale degli ultimi decenni. Scrittrice assai prolifica, con al suo attivo numerosi testi – il suo esordio avviene nel 1973 con Un amore fraterno, finalista al Premio Strega - comincia a lavorare come fotografa di scena, in teatro, alla fine degli anni ’50, dopo una breve esperienza al Circolo Fotografico Milanese. Ben presto però allarga il suo campo di interessi per rivolgersi al mondo esterno, impegnandosi in inchieste su diversi temi di rilevanza sociale e culturale, che, lungo l’arco di tre decenni, danno vita a numerosi libri e mostre oltre a comparire su riviste e quotidiani come L’Illustrazione Italiana, Vie Nuove, L’Espresso, Du, Leader, il New York Times, L’Express, Time – Life, Die Zeit. Del 1965 è una sua ricerca sul paesaggio confluita in Nove paesaggi italiani, cartella con 25 esemplari curata da Bruno Munari con prefazione di Renato Guttuso. È invece della fine degli anni ’60 il celebre lavoro sugli ospedali psichiatrici, poi pubblicato da Einaudi nel libro del 1969, curato da Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro, Morire di classe, cui Carla Cerati lavora insieme a Gianni Berengo Gardin. Attraversa questi anni, dal 1960 al 1980, l’interesse e l’amore per Milano, fotografata a più riprese nei suoi diversi aspetti e nei momenti di forte cambiamento, sociale, culturale, politico (confluito solo in parte nella pubblicazione Milano 1960 – 1970, del 1997). Persone, ambienti, situazioni, testimoniano nelle sue fotografie il passaggio di un’epoca e di un’intera generazione, attraverso le lotte politiche, il dibattito culturale – gli storici incontri alla libreria Einaudi, la mostra L’altra metà dell’avanguardia curata da Lea Vergine - la vita quotidiana dei più diversi gruppi sociali. Segue i riti degli ambienti culturali cittadini nel lavoro pubblicato in Mondo Cocktail (Amilcare Pizzi, 1974, nato dall’omonima mostra presso la galleria “Il Diaframma”). Approfondisce nuovi aspetti del teatro, fotografando il Living Theatre, e della danza, seguendo il lavoro del ballerino e coreografo spagnolo Antonio Gades e della performer Valeria Magli. Documenta la condizione degli intellettuali spagnoli sotto il regime di Franco, dal ’69 al ’75, con un lavoro mai pubblicato. Esplora i terreni prettamente maschili del nudo femminile, mettendo in atto uno sguardo critico e demistificante, scevro da stereotipi ma attento a intense lezioni formali ed espressive (pubblicato nel 1979 in Forma di donna). Con passione si dedica alla vita politica complessa e turbolenta della Milano di quel periodo, dalle contestazioni del ’68, agli eccidi, al processo Calabresi - Lotta Continua, al centro di uno dei suoi lavori più noti, fino a toccare la fine degli anni ’70, con i giorni del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. È di questi anni anche l’importante trilogia Una donna del nostro tempo, riflessione lucida e consapevole, a partire dalla propria esperienza biografica, sulla condizione femminile. Ne fanno parte Un matrimonio perfetto (1975 – premio selezione Campiello), La condizione sentimentale (1977), Il sogno della bambina (Uno e l’altro) del 1983, tutti ripubblicati da Marsilio nel 2005.

Nel 1981 realizza per la Rete Due della RAI TV il ciclo in tredici puntate Dietro l’obbiettivo, mai andato interamente in onda, dedicato a diversi fotografi ripresi nel proprio ambiente di lavoro.

All’inizio degli anni ’90 decide di lasciare il mestiere di fotografa, perché delusa dalla superficialità e dall’arrivismo dell’ambiente, segnato da rapporti di potere, e si dedica prevalentemente alla scrittura. Sono di quegli anni e di anni più recenti: La cattiva figlia (1990 – Premio Comisso), La perdita di Diego (1992 – finalista al Premio Strega), Legami molto stretti (1994), L’amica della modellista (1996), Grand Hotel Riviera (1998), La seconda occasione (2001), L’intruso (2004, Premio Feudo di Maida, Premio speciale il Molinello, Premio Vincenzo Padula – Città di Acri), L’emiliana (2008), e l’ultimo, Storia vera di Carmela Iuculano. La giovane donna che si è ribellata a un clan mafioso (2009).

 

Per informazioni:
Civico Archivio Fotografico – Milano  
Tel. 02.88463664
E-mail: c.craai.fotografico@comune.milano.it

Sito web: www.milanocastello.it

 

 

 
Martedì
15 gennaio 2008, alle ore 18.30.

Sarà inaugurata presso la Galleria Jannone

la mostra di Carla Cerati

Nudi

a cura di Paolo Morello.

La mostra resterà aperta fino al 31 gennaio 2008

tutti i giorni escluso i festivi dalle 15.30 alle 19.30
 

Nell’Italia dei primi anni Settanta, tra i molti generi della fotografia, il nudo era uno dei meno frequentati.
Da un lato, rappresentava ancora un tabù, dall’altro un anacronismo.
Da un lato, il retaggio di un gusto fotoamatoriale, dall’altro l’indice di una profonda trasformazione dell’immagine sociale e culturale del corpo, che avanzava di passo con le lotte per l’emancipazione delle donne e un rinnovato accordo tra la fotografia e le arti d’avanguardia, la gestualità, le performances. Questo dunque il contesto in cui si collocano i
Nudi della Cerati, queste le coordinate entro cui costruire una interpretazione.
Cosa cercava, la Cerati, in quei frammenti di corpi?
Perseguiva con maniacale passione, una volontà di forma.
Il ‘corpo come oggetto’ era lo strumento più duttile di cui potesse disporre.
Pretesto, pura occasione sulla quale condurre le sue verifiche sull’astrazione.
Strumento duttile, ma non privo di corruzioni: «arrivo — scrive — fin dove resiste la perfezione».

 Il suo problema non era dare forma ad un canone, a un ideale estetico,
 né dare appagamento ai piaceri dell’occhio.
La sua era una ricerca sui
limiti della perfezione.

Paolo Morello

 


ISBN: 88-87928-11-8 - Palermo, 2007; ril., pp. 85, 41 ill. b/n col., cm 24x31
 

 

info:

Galleria Antonia Jannone

Disegni di Architettura

corso Garibaldi 125

20121 Milano

tel +39 02 29 00 29 30

fax +39 02 65 55 628

e-mail antoniajannone@tiscalinet.it

 

 

 
20 DICEMBRE 2007 - 31 GENNAIO 2008

 INAUGURAZIONE MOSTRA C.S.A.C.

DEDICATA A CARLA CERATI

Giovedì 20 dicembre, alle ore 17,
nel Salone delle Scuderie in Pilotta
verrà inaugurata la mostra dedicata a Carla Cerati.

La mostra, composta da circa 400 fotografie dell’artista
fa parte delle iniziative volte a presentare le opere degli artisti presenti
presso il CSAC - Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma,
rimarrà aperta fino al 31 gennaio 2008.

Se si dovesse fare, e si farà di certo, una storia della fotografia italiana, la collocazione di Carla Cerati sarà difficile da stabilire: fotografa di un globale conflitto di classe, fotografa critica della borghesia milanese, fotografa di alcuni degli spettacoli teatrali della avanguardia, ad esempio quelli del Living Theatre, o ancora fotografa degli spazi aperti delle amate Langhe? E come collocare questa storia complessa accanto alle ricerche sul colore, alle fotografie di architettura, e come ancora analizzare le fotografie tenendo conto che Carla Cerati è una narratrice impegnata sul versante della condizione femminile?

Cominciamo dalle fotografie del saggio di danza al Piccolo Teatro, siamo nel 1960, con le ragazzine che appaiono da dietro le quinte come in “Bellissima” di Luchino Visconti. Ma subito dopo ecco il cambiamento: nella serie “Entraque” la fotografa propone lo spessore, la densità, la storia della campagna, paesi e case come scavate, intonaci e tetti di pietra segni di un tempo fermato; la materia appare legata alla ricerca pittorica dell’Informale che caratterizzerà il lavoro della Cerati, quantomeno quello sul paesaggio, per alcuni decenni. Intanto Carla fotografa le persone, scatta ritratti di gente del popolo, gente del Piemonte e gente del sud, scoprendo una umanità che prende senso dallo spazio attorno e dalla memoria di quello spazio. Poi viene, nel 1964, la ricerca sulle Langhe che suggerisce , come del resto “Liguria”, una attenzione agli spazi emarginati delle campagne ma anche al loro disfarsi, dissolversi, emergere come sfatta materia, una grafia che accomuna la Cerati alle ricerche di Mario Giacomelli e Nino Migliori.

Carla Cerati fa del ritratto un diverso modo di fare cronaca, racconto; ne sono prova in mostra la serie dell’alluvione di Firenze dove soldati e civili, studenti e cittadini, sono attori su una scena dove le distruzioni, le rovine sono l’eco delle figure umane. Questo sapere scavare nel ritratto e questo trasformare lo spazio del reale in scena fa comprendere perché proprio Carla Cerati abbia saputo cogliere il senso degli spettacoli del Linving, con foto di una tensione, di una violenza espressiva, anche nei contrasti di nero profondi, che non hanno confronti.

Gli anni ormai sono quelli della contestazione: siamo al 1968 e la Cerati sceglie di documentare una realtà diversa, quella degli alienati, ponendosi sulle tracce di Franco Basaglia e di Agostino Pirella, e operando a Parma in accordo con Mario Tommasini per documentare le immagini dei manicomi, come si chiamavano allora. Fra le sue foto una resta emblematica, quella con l’uomo senza volto, le mani sul capo, seduto contro un muro grigio che diventerà anche un ben noto manifesto. E dopo ? Paesaggi e ritratti, paesaggi in Liguria e ritratti che esaltano i contrasti, che colgono le tensioni espressive e la deformazione dei volti. Un’altra ricerca, sul nudo, assoluta come in Arp, riprende le ricerche di Bill Brandt trasformandole in un ritaglio chiaro. Ma è il tema del ritratto che affascina la Cerati e su questo lei stessa ha più volte scritto; Carla usa fotografare senza interloquire con chi riprende, poi scatta e sono foto di lunga durata come quelle di Elio Vittorini o di Eugenio Montale, di Italo Calvino o di Pierpaolo Pasolini. Per la Cerati la chiave interpretativa del paesaggio, ma anche delle foto di architettura resta la suggestione informale e questo spiega il parallelo fra immagini delle Vele in Costa Azzurra (1999) e delle terre arate delle Langhe (1964). Un altro grande racconto della fotografa è quello sulle persone, sul lavoro, ma anche sull’ozio a Milano, e sono ritratti di operai, o di mendicanti, foto scattate attendendo che questi non recitassero se stessi davanti all’obiettivo; e sono foto di cortei di protesta, e della rivolta contro la repressione, e queste foto di strada dialogano con le ricerche dell’amico Uliano Lucas ma puntano, rispetto a lui che sceglie il conflitto politico, l’evento, puntano sempre sui personaggi, sulle figure, sui volti.

Carla inventa però un genere di ritratto che è un documento civile e insieme spietato della società borghese a Milano al tempo del boom, è “Mondo Cocktail” (1972), che resterà nella storia delle immagini di quegli anni. Nei decenni seguenti Carla, dopo aver portato avanti il discorso sul ritratto e quello dell’impegno civile, affronta anche il tema del colore e quello della astrazione sviluppando diverse immagini che si legano alla geometria scoperta nelle foto di architettura.

Così il percorso di Carla Cerati assume una propria unità, una propria coerenza: le foto non sono foto di cronaca, ma semmai ritratti intesi come segni di una situazione umana, così le immagini delle manifestazioni o quelle della borghesia. Il paesaggio è però forse la chiave per comprendere la fotografa; fin dalle origini negli anni ’60 il paesaggio si scompone, diventa una specie di superficie scavata, spessa di solchi e di fori come una “Natura” di Lucio Fontana, e questo rapporto con l’arte, da ultimo quella di Max Bill e in genere della astrazione dopo la Bauhaus, fa comprendere la ricchezza, la complessità di un intellettuale che ha combattuto le battaglie per la autonomia delle donne e di rivendicazione civile con una consapevolezza eccezionale. La stessa che si ritrova nelle sue notevoli immagini.

Il catalogo della mostra, introdotto da uno scritto di Massimo Mussini, è edito da Skira.




Carla Cerati

A cura del Prof. Massimo Mussini
Skira Editore
24 x 29,7 cm, 192 pagine, 24 colori e 168 bicromie, brossura
Prezzo:
49,00 Euro

Il volume propone per la prima volta uno studio comparato della diverse attività della celebre fotografa e scrittrice italiana. Carla Cerati esordisce nel 1960 come fotografa di scena, per concentrarsi poi sul reportage e sul ritratto. L'inizio come narratrice risale al 1973 con "Un amore fraterno". Anche se cronologicamente la Cerati fotografa precede la Cerati scrittrice, ciascuna delle due attività presuppone l'altra e la completa. Nel libro si è cercato di dare una panoramica pressoché completa dell'attività dell'artista considerando l'intrecciarsi e il compenetrarsi di ogni sua espressione. "La fotografia mi serve per documentare il presente, la parola per recuperare il passato", affermava Carla Cerati in un'intervista del 1977, ma da allora il suo uso della fotografia si è molto modificato e, pur muovendo dal tempo oggettivo attestato dall'atto dello scatto, si è trasferito decisamente verso la reinterpretazione soggettiva delle immagini e, dall'accettazione iniziale della "verità fotografica", è giunto alla sua negazione.

 

 
Giovedì 8 marzo 2007 ore 18 - 21
 
Galleria Bel Vedere
 
Via Santa Maria Valle, 5 - Milano 
 
 
 inaugurazione della mostra
 
Carla Cerati
 
Punto di vista
 
a cura di Uliano Lucas
 
 
        
 

Carla Cerati raccontata attraverso alcune delle immagini più rappresentative dei suoi trent'anni di fotografia: dai ritratti di intellettuali alle foto di teatro, dai particolari nudi femminili ai meno conosciuti paesaggi. Un percorso poliedrico da cui emerge la maestria nel modellare il bianco e il nero e lo sguardo originale di un'autrice che ci ha lasciato un'acuta testimonianza del suo tempo.

Mostra: Carla Cerati  Punto di Vista a cura di Uliano Lucas,
Galleria Bel Vedere - Via Santa Maria Valle 5, Milano. Aperta fino al 15 aprile 2007, da martedì a domenica, ore 13 - 20, ingresso libero

Volume/catalogo Electa: Carla Cerati Punto di vista, testi di Fabrizio Dentice e Uliano Lucas, 120 pagine, 63 illustrazioni, 30 euro

 
Mostra: Galleria Bel Vedere Tel + 39 02 45472468 info@belvedereonlus.it
Volume: Ufficio Stampa Libri Electa tel +39 02 21563456/441 brognoli@mondadori.it
   

 

 

http://www.marsilioeditori.it/schedalibro.htm?cdart=8401-3

<< In questo romanzo Carla Cerati affronta, come già in Un matrimonio perfetto e nella Cattiva figlia, un tema importante: quello dei rapporti affettivi e generazionali, spesso intricati e dilanianti, dentro e fuori la famiglia. Il libro ci fa partecipare a un appassionato dialogo tra due amiche sul rapporto di un padre e una figlia che non si sono mai amati. L’intruso del titolo è un quasi centenario che riappare, dopo più di vent’anni di silenzio, nel momento in cui resta vedovo per la seconda volta. Ne esce una storia di ostinata soggezione a un dovere filiale vissuto nel disamore ma praticato come una sorta di missione. Un tema classico affrontato da un punto di vista che lo rende estremamente attuale, oggi che vivere fin oltre i cent’anni non costituisce più un’eccezione. Il romanzo, tra tante domande, ne pone una centrale: quali cambiamenti, quante difficoltà dovrà affrontare una persona non più giovane, poiché tale è la nostra protagonista, che deve sobbarcarsi la cura di qualcuno ancora più avanti negli anni? >>
 

 

Carla Cerati: Milano 1960-1970

Barbieri Editore (1997)

Una selezione di immagini in bianco e nero realizzate dalla fotografa italiana tra la gente e nelle strade di Milano. Un approccio documetaristico e umano alla fotografia, che scopriva una città che andava trasformandosi in seguito al boom economico.

http://www.hfdistribuzione.it/libro.asp?Codice=03BRB545

 

Il libro presenta un reportage sui vari aspetti della vita milanese nel decennio1960 - 1970.

Le immagini, di grande rigore formale e tutte in bianco e nero, saranno utili anche ai futuri sociologi e antropologi
che vorranno studiare in maniera non superficiale la storia e la vita di una grande metropoli negli anni del boom edilizio che ha portato lavoro e ricchezza, insieme a distruzione ed emarginazione. 

 


Il boom edilizio: cantiere in via Rossetti © Foto di Carla Cerati, Milano 1964



Operai della Siemens di viale Migliara diretti alla mensa per la pausa di mezzogiorno
© Foto di Carla Cerati, Milano 1964
 


Fiera Campionaria: uno dei cancelli d'uscita.
Esistevano ancora i cinesi venditori di cravatte, ambulanti in bicicletta con valigie di fibra.
 © Foto di Carla Cerati, Milano aprile 1964
 


Fiera Campionaria, piazza Giulio Cesare: picnic familiare sui marciapiedi tra le auto
 © Foto di Carla Cerati, Milano aprile 1964
 


Foyer del Teatro alla Scala la sera di S. Ambrogio
 © Foto di Carla Cerati, Milano 1965
 


Galleria dell'Apollinaire: performance di Bruno Lauzi
 © Foto di Carla Cerati, Milano giugno 1967



Galleria Vittorio Emanuele: manifestazione studentesca
 © Foto di Carla Cerati, Milano 1968

 

 Cit. © Carla Cerati, Milano 1960-1970, Barbieri Editore, Mandria, 1997, pagine 3 e 4

Bill Brandt diceva di aver superato una grave nevrosi grazie all'uso della macchina fotografica. Per me invece, fotografare ha significato la conquista della libertà e anche la possibilità di trovare risposte a domande semplici e fondamentali: chi sono e come vivono gli altri? Lavorano? E se si, dove lavorano? Quali sono i mestieri, le professioni e i luoghi in cui le svolgono? Come trascorrono il tempo libero?

Erano i primi anni Sessanta quando cominciai a esplo­rare l'universo che stava fuori dalla porta di casa; con la Nikon nuova fiammante appesa al collo e un paio di pellicole nella borsa percorrevo la città, avida e curiosa come una bambina che ha appena imparato a leggere e che si meraviglia di saper interpretare quei simboli che fino a un momento prima le apparivano come un insieme di se­gni indecifrabili.

Abitavo allora al primo piano di un edificio le cui finestre si affacciavano sulla strada, una via tranquilla dove però, a saper guardare, accadeva sempre qualcosa che meritava una sia pur piccola porzione di immortalità. Per questo tenevo la Nikon a portata di mano, con la pellicola inserita. Nacque allora in me la coscienza della vera natura di chi sceglie questo mestiere: il fotografo è un voyeur, vive spiando gli altri; ma non necessariamente gli altri sono persone: possono essere animali, oggetti, paesaggi, muri, scritte. Più avanti perfezionai questa intuizio­ne arrivando a convincermi che il fotografo è un testimone del proprio tempo: il suo occhio discerne, filtra, suddivide, critica e censura tutto ciò su cui si ferma.

All'inizio della mia esplorazione mi lasciavo guidare dall'estro: potevano attrarmi un quartiere sconosciuto, un temporale, una nevicata, due bambini che giocavano sul marciapiedi. L'idea di un libro su Milano nacque molto più tardi, starei per dire a lavoro ultimato, quando mi resi conto della quantità di materiale che via via era an­data ad arricchire il mio archivio, quasi un diario segreto, un flusso continuo di appunti a futura memoria.

Interessata al ritratto divenni un'assidua frequentatrice della libreria Einaudi dove in quegli anni si potevano incontrare poeti come Eugenio Montale, scrittori come Elio Vittorini, giornalisti come Enrico Emanuelli, architetti come Ernesto Rogers. Là dentro lavoravo indisturbata, anonima, protetta dalla macchina fotografica come da un oggetto magico che mi rendeva invisibile; mi muovevo senza rumore, mi facevo dimenticare: catturavo vol­ti, situazioni, attenta più a queste che ai nomi illustri.

La curiosità mi spingeva però ad affrontare argomenti e ambienti diversi: passavo dal mondo degli intellettuali a quello degli operai, dalla scuola di danza al cantiere, dai giovani della borghesia ai pendolari, dagli abitanti delle case di ringhiera ai frequentatori delle boutique del centro. Seguivo dei temi che sviluppavo nel corso del tempo, parallelamente, e che poi finivano per intrecciarsi formando una specie di affresco della società di quegli anni. Da ciascuno di questi temi nacquero dei racconti per immagini che nell'intenzione non dovevano neppure aver bisogno di didascalie. Però da questi racconti usciva l'idea di una società pacata, quasi immobile, che non po­teva accontentarmi a lungo: sentivo il bisogno di situazioni drammatiche, estreme; da lì la scelta di cogliere frammenti da dietro le quinte durante le prove di spettacoli teatrali e, finalmente, grazie all'entusiasmo e all'appoggio di Franco Basaglia, l'opportunità di documentare la condizione degli internati negli ospedali psichiatrici italiani. Un'esperienza sconvolgente, indimenticabile, vissuta durante qualche mese di quello straordinario anno che fu il 1968: nacque così Morire di classe, libro-denuncia edito da Giulio Einaudi. Nel corso di questo lavoro sentii per la prima volta i limiti della macchina fotografica. che non poteva cogliere efficacemente l'ossessiva ripetitività dei gesti, le voci, le grida, I lamenti e, insieme a tutto questo, l'assurda musichetta trasmessa dalla filodiffusione: al tempo stesso mi convinsi che l'impatto di un'immagine ferma è molto più forte di quelle in movimento che ormai tutti i giorni consumiamo con indifferenza attraverso il piccolo schermo.

Due anni dopo passai a un tema completamente diverso: il mondo dei frequentatori di cocktail party. Dal '70 al '72 seguii questo filone documentando l'eccentricità e l'opulenza di quel periodo che presto avrebbe assunto toni cupi. Quando ebbi raccolto materiale sufficiente per una mostra e un libro dal titolo Mondo cocktail, persi ogni interesse per quell'ambiente. Questo mi spinse a riflettere sul mio rapporto con il mondo, vissuto quasi esclusivamente tramite la macchina fotografica. Possibile che quasi tutti gli aspetti del vivere perdessero significato per me se non li potevo fissare sulla pellicola? Possibile che la mia curiosità si trasformasse in noia se non potevo registrare gli avvenimenti e riproporli, magari non subito, a un pubblico ancora da definire?

Perso la fine degli anni Settanta cominciai a scegliere il materiale per il libro su Milano e a dargli una struttura organica: lo divisi in parti e in capitoli e a ognuno diedi un titolo che ne facilitasse la lettura. Un lungo racconto composto da duecentoventi immagini e che mostrava la metamorfosi di una città nel corso di due decenni. Si trattava di una visione molto personale, come sempre quando si scrive un saggio o un romanzo e si vogliono trasmettere idee e sensazioni. Ho pensato anche di farne un piccolo film. lavorando sulle fotografie con la macchina da presa.

Una qualità indispensabile per chi fa un mestiere come il mio è la pazienza: bisogna saper aspettare il momento giusto per lo scatto dell'otturatore e rispettare i tempi di sviluppo delle pellicole, non impazientirsi allo scorrere dell'acqua durante il lavaggio delle stampe e curarne me­ticolosamente l'asciugatura se si vogliono ottenere i mi­gliori risultati.

Perché queste immagini uscissero una a una dal chiuso dell'archivio ho dovuto aspettare più di trent'anni: il materiale che presento qui per ricordarci come eravamo è quasi tutto inedito ed è soltanto una parte del grande affresco che spero uno giorno possa ricomporsi interamente.

Se per Bill Brandt la fotografia ha sostituito l'analista, per me è stata soprattutto una grande passione. le ho dato tanta parte di vita ma mi ha enormemente arricchita.

                                                       Carla Cerati

 

 

 

"Italia doppie visioni"

Scuderie del Quirinale

2 giugno - 29 agosto 2004

Herbert List e Mimmo Jodice, Sebastião Salgado e Giorgia Fiorio,
Henri Cartier-Bresson e Mario Giacomelli, Joel Sternfeld e Gabriele Basilico,
Paul Strand e Gianni Berengo Gardin, William Klein e Mario Carrieri,
Martin Parr e Massimo Vitali, Roger Ressmeyer e Antonio Biasiucci
Raymond Dépardon e Carla Cerati, Ernst Haas e Luca Campigotto.

Testi di Francesca Sanvitale e Peter Schneider.

 


Carla Cerati © Parma, 1968

 


Foto di Raymond Depardon © San Clemente, Venezia 1984

 


Foto di Raymond Depardon © San Clemente, Venezia 1984

 


Carla Cerati © Firenze, 1968

 

Roma, Scuderie del Quirinale
Via XXIV Maggio, 16
2 giugno - 29 Agosto 2004
apertura: aperto tutti i giorni
orario: dal lunedì al giovedì dalle16 alle 21
dal venerdì alla domenica dalle 16 alle 23
biglietti: 6 euro intero - 5 euro ridotto
Per Informazioni tel. 06696270

www.scuderiequirinale.it

 


In occasione dell'inaugurazione della mostra abbiamo incontrato Carla Cerati
che ci ha parlato di lei e dei suoi lavori, non solo fotografici.

 

Prima ho fatto la moglie e la mamma.

Nel 1960 dopo alcuni anni di matrimonio, ho cominciato a scrivere narrativa e romanzi, e a fotografare.

Ho iniziato come fotografa di scena a teatro, nel 1962 con “La compagnia dei quattro”, di Franco Enriquez Glauco Mauri, Mario Scaccia e Valeria Morioni.

Ero stanca di fotografare figli e amiche ed ho pensato di trovare nuovi stimoli dal teatro.

Al Teatro Manzoni di Roma era in scena la commedia “Niente per amore” di Oreste del Buono.

Gli ho chiesto il permesso per fotografare durante le prove dello spettacolo.

Dopo aver visto i provini, Oreste del Buono mi ha detto di aver bisogno di alcune foto per la stampa.

E così, di colpo, sono passata al professionismo, senza passare per la gavetta !!!

Successivamente ho lavorato per trent’anni con il teatro, pubblicando pochi libri fotografici.

Ho sempre mantenuto la duplice attività di scrittrice e fotografa, ed in autunno (2004) uscirà il mio undicesimo romanzo che s’intitolerà “L’intruso” (Marsilio Editori, Venezia).

Ho pubblicato su "L'espresso" quando era di grande formato e dava un bel risalto alle immagini.
La fotografia, allora, non era un riempitivo ma era la protagonista.
Era una soddisfazione vedere le pubblicate le proprie immagini, belle e grandi.
Io ho lavorato molto sui giovani e sulla gente, iniziando con un servizio sulla scuola media e liceo pubblicato su "L'illustrazione italiana" - rivista fondata dall'editore-giornalista Emilio Treves (Trieste,1834-Milano,1916) nel dicembre 1873, con il nome di "Nuova Illustrazione Universale".
Sulla città di Milano ho un menabò di oltre 200 fotografie e magari ne farò un film.

Cosa l'ha maggiormente colpita dei mutamenti urbanistici e sociologici dagli anni '60 ad oggi ?

Io ho seguito molto i giovani, di varie classi sociali, a partire dalla classe operaia.
Nel periodo del boom edilizio ho fotografato molto nei cantieri.
Trovo che in alcune foto ci sia un'innocenza in questi muratori o imbianchini, anche giovanissimi, che non ho più riscontrato nel tempo. Una cosa che mi ha colpita nelle foto fatte nei cantieri era il piacere di essere fotografati, anche se poi i soggetti non ti chiedevano la foto... avevano piacere nel lasciarsi immortalare... una cosa curiosa! 
La gente è veramente molto cambiata. 

Negli anni '60 lei ha lavorato anche con "L'espresso"...

Uno dei primi lavori che ho realizzato per "L'espresso" era un'analisi sui giovani della borghesia italiana.
Localizzando una classe sociale che era la media-borghesia - dal popolare all'intellettuale - ho notato che i giovani del liceo classico erano diversi dai giovani immigrati che arrivavano a Milano in cerca di lavoro.
Erano profondamente diversi ! C'era proprio un modo di porsi, di vestirsi e di pettinarsi molto diverso.
Tutto questo mi ha sempre interessata, proprio dal punto di vista antropologico.

Come si è accostata a questi giovani ?

Io, fotografando, ho sempre cercato di non esserci nella fotografia.
Non ho mai chiesto la complicità del soggetto.
Ci sono fotografi che dicono "mettiti li che ti faccio una foto...", io lo detesto!
Io voglio passare inosservata.
Sono capace di aspettare ore per fare uno scatto, in modo che la scena sia il più naturale possibile.
Non volevo esserci e a me dava fastidio se dimenticavo il contenitore di un rollino, che entrava nella foto...
era una cosa che non sopportavo perché la mia presenza non doveva esistere!

Ma sapere di essere fotografati, per poi apparire su "L'espresso", non condizionava i suoi soggetti ?   

No !
Non mi chiedevano neanche dove sarebbe uscita la foto, non sapevano che facevo le foto, io scattavo e basta.

E per lei cosa rappresentava l'atto di fotografare ?

Per me fotografare era un modo per capire megli il mondo in cui vivevo.
Mi interessava l'evoluzione sociale, urbanistica e politica della città perché io ho sempre pensato che fotografare significasse esprimere delle idee e, per questo, io non credo nell'obbiettività dell'obbiettivo.
Io credo che attraverso l'obbiettivo posso dire la mia opinione.
 
Io ho lavorato per 10 anni sugli intellettuali spagnoli...
Ricordo che dopo la morte di Franco in Spagna (il Capo di Stato Francisco Franco muore il 20/11/1975) c'è stata l'incoronazione di Juan Carlos (il 22/11/1975 alle 12,45 Don Juan Carlos è nominato Re di Spagna) e ci hanno messi tutti in un pullman... eravamo 400 fotografi in una gabbia per galline.
Sono sicura che ciascuno ha realizzato una fotografia diversa, perché ognuno voleva dire una propria cosa.

Anche Franco Fontana duranti i suoi workshops mette gli allievi davanti ad un'unica scena e li invita a fare ognuno la propria fotografia...

Si fa presto a dire che è la macchina a fare la fotografia...
Sono l'occhio e la mente del fotografo che cercano e selezionano un'immagine piuttosto che altre.
 

 
Un esempio al proposito è dato da queste foto,
scattate allo stesso soggetto e nel medesimo contesto,
da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, pubblicate alle pagine 70 e 71 del libro

<< PER NON DIMENTICARE - 1968 la realtà manicomiale di "Morire di classe" >>


cliccare sull'immagine per ingrandirla

 

 

 E' stato difficile fare carriera in fotografia, essendo donna ?

No ! Quando ho cominciato io, nel '60, essere donna è stato un vantaggio.
Molti direttori di giornale avevano il preconcetto per cui una donna era più adatta a fare un certo tipo di reportage, ad esempio nella scuola, perché secondo loro una donna si muove con più garbo, fa meno rumore, ed è più psicologa rispetto ai colleghi uomini.
Questo mi ha aiutato solo per alcuni anni, anche perché ero l'unica donna fotografo a Milano.
Negli anni a seguire la concorrenza è aumentata e sono aumentati sia i fotografi che le fotografe.

Di fotografe donne come Carla Cerati, Giuliana Traverso, Shoba o Giorgia Fiorio, ce ne sono poche... 

Ho notato che quando c'è un confronto generazionale tra fotografi, come nel libro di questa mostra "ITALIA", i più giovani sembrano rinchiudersi in se stessi, mentre per la mia generazione la fotografia ha rappresentato un modo per rapportarsi con il mondo esterno.
Oggi la fotografia sta diventando qualcosa di molto solitario, come un occhio che guarda se stesso e si rinchiude.
Tante donne fotografe lavorano sulle immagini video e quindi fanno un'opera più introspettiva e concettuale, ma meno politica e d'assalto.

La difficoltà del fotografo a rapportarsi con gli altri è condizionata dal mutato concetto di privacy ?

Si è vero... ma problemi ne ho avuti anch'io con fotografie degli anni '60.
Mi è capitato di fotografare un suicidio, una donna che si è buttata dal quinto piano, proprio davanti a casa mia.
Era estate e non riuscivo a prendere il sole sul mio balcone di Milano, quando ho sentito un tonfo...
c'erano le macchine parcheggiate e non  capivo cosa era successo... mi ero immaginata tutta un'altra storia...
e quindi sono corsa fuori a vedere, con la macchina fotografica al collo, iniziando a scattare fotografie di questo cadavere... poi è arrivata la polizia che mi disse che non potevo fotografare, ma io avevo già fotografato.
A quel punto ci si pone un problema: ti censuri prima di fare le fotografie o ti censuri dopo ?
Io ho preferito censurarmi dopo, perché altrimenti bastava che decidessi di fare still-life in studio e niente altro.
...ho anche ricevuto telefonate dai parenti della vittima che mi pregavano di non pubblicare le foto ed io non le
ho fatte pubblicare. Passato qualche tempo ho utilizzato le foto in alcune mostre.
Rimane comunque il grosso problema etico di certe immagini, come quelle delle torture in Irak.
Qualche giorno fa, rimettendo in ordine una parte del mio archivio, ho trovato una lettera che avevo scritto al "Corriere della Sera" nel 1983/84 a proposito di un articolo di Giovanni Raboni che si indignava per una serie di immagini che erano state pubblicate.
Nella lettera io scrissi dicendo di capire l'indignazione, ma è grave che certe cose siano avvenute o il fatto che siano state documentate ? Sarebbe come dire che se non le documentiamo, non sono avvenute ?
Per me è giusto documentare.
Senza le foto delle torture in Irak, soprattutto ai danni di bambini, oggi non avremmo questa reazione violenta.

Questo, però, non le sembra ipocrita nei confronti dello Stato americano che accetta di presentare in diretta TV l'esecuzione di persone condannate alla pena di morte, con la sedia elettrica ?  

Si. C'è molta ipocrisia !
Io sono convinta che se le nostre fotografie sono servite ad aiutare Franco Basaglia per realizzare una legge per far chiudere gli ospedali psichiatrici, così come erano intesi allora, vuol dire che la forza di un'mmagine è ben diversa dai testi scritto. Le parole si possono smentire! Le immagini no!

Ma la realtà non esiste se non per come noi la percepiamo, intendiamo o rappresentiamo...
L'occhio seleziona ed inquadra porzioni della realtà, che poi il cervello riassembla consentendoci di avere una visione d'insieme della realtà che, però, non è la realtà.
La fotografia, così come il video, propone solo una o più inquadrature del reale davanti all'operatore.
Il fotografo non potrà mai  presentare un'immagine oggettiva della realtà, ma ne offrirà sempre una visione soggettiva, parziale e tal volta perfino strumentalizzabile.
La didascalia media

che include la fоtografia nell'ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa.>>


Un esempio eloquente ne è il famoso olio su tela di Magritte intitolato "
Ceci n'est pas une pipe".
 

ceci n'est pas une pipe
(R. Magritte, Ceci n'est pas une pipe, 1926)


Si ma a meno che una fotografia non sia stata manipolata, il fatto fotografato è comunque esistito.
Certamente è una nostra scelta quella di evidenziare alcuni aspetti a scapito di altri.

Mi viene in mente una foto di Tano D'Amico (nato a Filicudi nel 1942), dove una coppia naviga sul Tevere con atteggiamento sereno, curioso e affettuoso. Solo nella didascalia si legge che trattasi di  due ricoverati dell'ospedale psichiatrico romano S. Maria della Pietà, in gita sul Tevere nel 1978. 
La loro vita non è certo solo questo.
Ma presentando solo questa foto, si lascia intravedere solo un aspetto tra i tanti della vita asilare. 
 

 
Foto di Tano D'Amico, Le eternanee (ass.ne culturale TAM TAM )  © Ricoverati di S. Maria della Pietà in gita sul Tevere, Roma 1978

   
Ma da cosa si capisce che sono matti, in quella situazione ?
Io sono non sono stata interessata a fotografare gli ospedali psichiatrici dopo la loro apertura perché...
che cosa distingue un malato psichiatrico in libertà ? Cade l'interesse !
Se fai un lavoro di denuncia ha senso vedere il malato nella struttura repressiva che porta ad ulteriore sofferenza questo malato. Ci sono situazioni drammatiche che fuori dal proprio contesto non hanno significato.

Lei che cosa ha voluto denunciare, con il suo lavoro sulla realtà manicomiale ?

L'idea di partenza era la stessa che mi spingeva a fotografare il teatro: il palcoscenico della felicità.
Il fotografo è sempre alla ricerca di immagini forti.
Quando poi sono entrata in contatto con la realtà degli ospedali psichiatrici, ho provato un profondo senso di pena davanti a tanta sofferenza. La prima volta che sono entrata in un ospedale psichiatrico, è stata in quello di Gorizia, diretto da Franco Basaglia, dove non c'erano più le camice di contenimento, però c'era la miseria con gente ricoverata da cinquant'anni che non si rendeva più conto che non c'erano più i muri di recinzione ne le sbarre. Erano talmente condizionati , mi raccontava Basaglia, che anche durante la loro passeggiata, arrivavano dove una volta c'era un muro e tornavano indietro perché per loro il muro continuava ad esserci.

Vite distrutte negli ospedali  psichiatrici, con mezzi coercitivi

Facemmo la prima mostra fotografica, organizzata da Franco Basaglia a Parma nel 1968.
In coincidenza con la mostra ci fu un'imponente manifestazione degli infermieri precari, con un contratto a termine, che hanno sfilato per le strade di Parma indossando le camicie di forza, per richiamare l'attenzione della gente.
Gli stessi infermieri spiegarono che un operatore da solo, di notte, in un reparto di anche 70 malati agitati, non poteva tenere tutto sotto controllo senza le camicie di forza. Il loro lavoro era necessario e indispensabile per evitare questa coercizione.
A quanto ci dissero gli infermieri, i malati erano talmente abituati a vedere in loro degli aguzzini che ne avevano paura quando si avvicinavano.
Negli ospedali repressivi si usava la "strozzina" che era un lenzuolo bagnato e attorcigliato che veniva stretto al collo del paziente fino quasi a soffocarlo.
Legavano i pazienti ai letti con le cinghie di contenzione...
Erano cose terribili e per questo i degenti erano terrorizzati.      

Questo avveniva anche nell'ospedale di Franco Basaglia o li era diverso ?

Franco Basaglia aveva cambiato tutto, c'erano ancora malati sedati con gli psicofarmaci, però non erano legati e avevano le scarpe... In altri ospedali era una cosa terribile, con i malati senza biancheria, senza scarpe, con le camice di forza, per tre mesi senza levargliele e, quando le cambiavano, i malati erano pieni di piaghe sotto le ascelle ed era una cosa veramente terribile.

Questo servizio fotografico è nato perché Franco Basaglia ha ingaggiato Lei e G. Berengo Gardin ?

No, no siamo stati ingaggiati da Basaglia.

Nel 1967 Basaglia curò il volume "Che cos'è la psichiatria ?", nel 1968 pubblicò "L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico", con la casa editrice Einaudi.

Tramite la casa editrice mi sono messa in contatto con lui e scoprii che stava cercando il modo di fare un libro fotografico sulle istituzioni repressive. E' stato felicissimo di questa combinazione ed ha aiutato me e Gianni Berengo Gardin ad entrare in vari ospedali.

Nel 1969 Franco Basaglia lasciò la direzione dell'Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia e, dopo due anni passati a Parma alla direzione dell'ospedale di Colorno, nell'agosto del 1971 divenne direttore del manicomio di Trieste, il San Giovanni, dove c'erano quasi milleduecento malati.

Quando Voi entravate negli ospedali si sapeva chi vi mandava e si conoscevano le idee di Basaglia...
quindi il Direttore che vi lasciava entrare, sapeva che avreste fatto una fotografia di denuncia.

Non tutti.

All'ospedale psichiatrico di Firenze siamo entrati una volta sola, grazie all'aiuto di due psicanalisti Sergio Finzi e Virginia Finzi Ghisi. Il giorno dopo ci avvertirono di non tornare perché alla direzione dell'ospedale avevano capito che cosa stavamo facendo.  L'esperienza nell'ospedale psichiatrico di Firenze è stata per me quella più traumatizzante... ci dissero anche che eravamo stati fortunati ad entrare in luoghi dove avevano appena fatto le pulizie e, di solito, c'erano circa un metro di escrementi nei corridoi... era comunque terrificante vedere la sofferenza di queste persone...

A Ferrara non siamo riusciti a fotografare niente.
Perché il direttore ci faceva seguire a vista senza farci vedere niente.
Guardando poi la cartina topografica del luogo ci siamo accorti che non ci avevano fatto vedere interi reparti.

A Parma abbiamo fatto foto interessanti ma quando gli infermieri si sono accorti di cosa stavamo facendo, ci hanno chiesto la consegna dei rollini e qui è intervenuto Gianni Berengo Gardin che, essendo più sgamato di me, aveva preparato dei rullini vergini e gli ha dato proprio quelli, mettendo i rullini impressionati dentro un ombrello,
con il quale siamo usciti tranquillamente senza che nessuno si accorgesse di nulla.

Le vostre fotografie come uscirono la prima volta ? Sul libro Einaudi, sui giornali o in mostre ?

Direttamente sul libro "Morire di classe" di Einaudi, a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia.

Credo che la frase gattopardesca "bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima" possa ben adattarsi alla reazione che certe istituzioni ebbero contro le innovazioni proposte da Franco Basaglia.
Come reagirono all'uscita del Vs. libro quelle istituzioni che ambivano a mantenere inalterato sia il proprio potere che le condizioni ospedaliere da gestire e da voi denunciate non più ammissibili ?

Non conosco la reazione delle istituzioni.
Io e Gianni Berengo Gardin ricevemmo un premio per quei reportage.

Chi operò la scelta finale delle fotografie da pubblicare ?

Le foto furono scelte direttamente da Franco Basaglia.

Ricordo inoltre che nell'ospedale diretto da Franco Basaglia, c'era tutti i giorni un'assemblea tra i malati ed i medici che tendevano a rendere autonomi i degenti meno gravi.
Franco Basaglia ci chiese di spiegare ai malati i motivi per cui volevamo fotografarli, chiedendo il loro consenso.
Io e Gianni spiegammo loro quello che intendevamo fare e che volevamo anche aiutarli ad uscire da una situazione difficile. Alcuni malati sottolinearono il fatto che noi avremmo guadagnato dei soldi dalle loro immagini
e che dunque volevano dei soldi anche loro. Noi li invitammo a farci una proposta e loro ci chiesero una cifra minima, tipo 30-40 mila lire che noi gli abbiamo subito dato. Dopo di ché loro si sono lasciati fotografare.
Dunque per le foto avevamo il consenso dei malati.

I soggetti però, sapendo di essere fotografati, non si mostravano per come loro volevano apparire, mascherando  la cruda realtà di tutti i giorni ?

Alle assemblee partecipavano solo i malati quasi autonomi,  in grado di andare a vivere in case-famiglia, una volta usciti dall'ospedale.

Noi siamo stati liberi di fotografare dove e come volevamo e nell'ospedale di Basaglia, come lui stesso spiegava, ci finivano solo i poveri perché i ricchi andavano nelle cliniche private.

Da qui il titolo "Morire di classe".

La cosa palpabile era la miseria.

La miseria dei muri e delle toilette c'era anche nell'ospedale di Basaglia, dove lui era attento che i malati non fossero martirizzati ma c'era una carenza istituzionale pazzesca.

Allora vigeva una legge per cui se una persona era ricoverata in un ospedale psichiatrico per più di 15 giorni, gli veniva scritto sui documenti "Pericoloso a se e agli altri", ed era marchiato lui ed i suoi discendenti.

Basaglia per aggirare questa sorta di marchiatura, teneva i degenti per 14 giorni, poi li rimandava a casa per un giorno, e successivamente li riaccoglieva... in modo che non avessero scritto sui documenti che erano stati detenuti in un ospedale psichiatrico.

Negli ospedali, oltre ai malati, c'erano anche persone sane non accettate dalle proprie famiglie ?

Si. Una persona che era ricoverata subiva vere e proprie torture, era sottoposta a vari mezzi di costrizione e doveva ingerire psicofarmaci in continuazione, per cui anche se non era malato ci poteva facilmente diventare.

Gli infermieri di Parma, durante una manifestazione, hanno fatto vedere come venivano legati al letto i malati,
e ricordo che uno di loro pur sapendo che gli era stata messa una camicia di forza non stretta, a puro scopo dimostrativo, ha avuto una crisi isterica. 

Avete fotografato i degenti solo quand'erano negli ospedali o anche quando ne sono usciti, magari per documentare le difficoltà del loro adattamento alla vita normale ?

No. quello lo hanno fatto altri fotografi ed a me non interessava, anche perché è normale che nell'arco di una giornata una persona possa avere qualche espressione da ebete e, se mostrassimo solo quelle, equivarrebbe a marchiare quella persona come un matto... ma come si fà...

Cosa pensava Basaglia della mancanza di quelle strutture atte a riabilitare un ospedalizzato, facendolo rientrare ed reintegrare nella società ? 

Basaglia ha concepito le "case famiglia".

Agostino Pirella ha formato case famiglia ad Arezzo, dove molti ex internati si gestiscono autonomamente la propria vita, avendo formato specie di famiglie dove uno soccorre l'altro.

Il dramma delle strutture psichiatriche è che, una volta che sono state chiuse, tutti i problemi dei singoli degenti sono ricaduti sulle famiglie che, naturalmente, non sono sempre in grado di affrontarli in maniera adeguata, anche per mancanza di formazione e mezzi specifici.

A questo proposito Basaglia avrebbe voluto dare un appoggio alle famiglie.

Lei ha fotografato solo in Bianco e Nero o anche a colori ?

La mia generazione è cresciuta con il bianco e nero. Io penso che nelle foto drammatiche e di guerra il colore sia una stonatura, mentre il bianco e nero si adatta meglio a rappresentare la drammaticità degli eventi.

Voi avete fotografato individui con delle caratteristiche fisiognomiche che denotavano una diversità del soggetto che era quindi di per sé fotogenico, nel senso che attirava l'attenzione su di sé anche senza essere rappresentato in bianco e nero. Cosa risponde a quanti  potrebbero pensare che fotografare un persona palesemente diversa, faciliti il lavoro del fotografo.

Beh. Dipende sempre da come il soggetto viene fotografato.
Io non lo sò se è giusto pensare che qualcuno possa fotografare il "diverso" perché è più facile.
Forse lo fanno perché essendo meno consueto è più interessante.
Poi bisogna vedere la profondità di chi fotografa perché con lo stesso apparecchio si possono fare sia foto banali che foto belle. 
Io ho fatto una mostra a Paternò in Sicilia intitolata "scena e fuori scena", con un bel catalogo edito da Electa.
(La mostra è stata allestita alla Galleria d'arte moderna dal 19 ottobre al 30 novembre 1991, n.d.r.)
Guardando il ritratto che avevo fatto ad Eugenio Montale in casa sua a Milano, mi era sembrata una foto di scena, perchè c'era un anziano signore su una poltrona, in un bell'ambiente, con una pianta di incisa (Artocarpus communis = incisa o albero del pane, n.d.r.) dietro, e sembra un'immagine ripresa sul palcoscenico.
Da questa constatazione mi è venuta l'idea di operare un raffronto tra immagine di teatro ed immagini reali,
anche per vedere qual'era la più falsa, la più teatrale.
Io ho fotografato grandi semiologi e psicanalisti ad un convegno di semiologia a Milano, raffrontando le foto di due attori ripresi a Sant'Arcangelo di Romagna nel teatro in piazza, con due grandi psicanalisti. Non si capisce quali siano più pazzi o bizzarri. Non si capisce se la foto più reale sia quella degli psicanalisti o quella degli attori.
Partendo da questa idea ho continuato a fotografare e raffrontare la realtà e scena.
Ed è un lavoro che mi è piaciuto tantissimo.

Avete avuto problemi per esporre le vostre immagini a Parma ?

No. Io non ne ho mai avuti.

Devo dire che quando Basaglia ha messo in piedi questa mostra negli ex gabinetti pubblici a Parma, insieme con l'assessore Tommasini che ci ha fatto fotografare l'occupazione del manicomio di Colorno, era un ambiente squallidissimo piastrellato di bianco, vecchio, decadente...

Erano stati convocati pure gli infermieri e nessun parente dei malati venne a vedere la mostra, perché la malattia mentale era vissuta come una vergogna...

Oltre a "Morire di classe", quali sono i suoi lavori più conosciuti ?

I nudi femminili.(si veda il libro "Forma di donna" con 34 fotografie di Carla Cerati,  Milano,  Mazzotta, 1978).

A "Mondo coktel" dedicato ai vernissage e alle inaugurazioni di mostre, dove tutti sono con i bicchieri in mano, e dove qualcuno si pianta davanti al buffet con tanto di borsa in mano.
Allo studio Marconi di Milano ho visto una forma di Grana sparita in pochi minuti, i visitatori sembravano delle cavallette affamate e sarebbe stato interessante riprendere con una cinepresa la disfatta della forma di formaggio.

Lei ha mai insegnato a fotografare ?

No. Mi hanno proposto di fare stages di nudo a Santa Maria al Bagno, in Puglia, ma non è stato possibile avere una modella disposta a posare nuda perché nel gruppo di corsisti c'era qualche maschio. Per questo avevano la pretesa che facessi un corso di nudo con un manichino da vetrina. Mi sembrò impossibile e facemmo tutt'altro.

Lei oggi non racconta più con le immagini ma con la parola, ed è una scrittrice affermata...
Cosa accomuna o differenzia la narrativa alla fotografia?

Con la macchina fotografica non puoi raccontare il passato ma solo il presente.

Con la scrittura puoi scavare nella memoria, puoi inventare e puoi ricostruire, cose impossibili con la fotografia.

Ma ci sono i set fotografici e perfino Romano Cagnoni ha fatto posare soldati in guerra, per cui non si capisce più molto bene quale sia la loro immagine reale...

A me non interessano i set che comunque ricostruiscono il presente ma non possono rievocare il passato.

Con la fotografia si può ricostruire o reinventare una realtà, ma questo è diverso dal documentare una realtà.

Se io potessi rievocare il fantasma di mio fratello, morto a nemmeno quarant'anni, e fotografarlo come sarebbe oggi, allora sarebbe una cosa interessante.

Come e quando è passata dalla fotografia alla narrativa ?

Il mio primo libro l'ho scritto dopo la morte di mio fratello a cui ero molto legata.

Quello che racconto nel libro non lo avrei potuto raccontare con fotocamera perché lui non c'era più.

Questa è la diversità... Io ho potuto ricostruire sensazioni, ricordi, sofferenze, malintesi....

Perché ho iniziato a scrivere ?
Perché io scrivevo già da ragazzina ed il mio primo romanzo l'ho cominciato a dieci anni.
Poi rileggendone le prime pagine mi annoiavo e pensavo a quanto si sarebbero annoiati gli altri, e lo abbandonai.

Tutti noi abbiamo tenuto un diario...

No. Io non sono mai riuscita a tenere un diario...
Nei momenti più amari ho magari scritto qualcosa, ma non un diario continuativo.

Quanto il suo essere scrittrice è stato influenzato dall'essere stata una fotografa ?

C'è gente che dice che io scrivo in maniera visiva...

 

 

Roland Barthes  ha scritto di aver sempre odiato la propria immagine finché un'eccellente fotografa non gli ha inviato una fotografia che ha pubblicato nel libro "Barthes di Roland Barthes" (a pagina 33, n.d.r.).

La foto la scattai alla libreria Feltrinelli di Milano durante la presentazione di un libro, con Arbasino ed altri...

Gli mandai la foto a Parigi e lui mi ringraziò dicendo di essersi finalmente riappacificato con la sua immagine.
 


Roland Barthes ritratto da carla Cerati

 

"Da bambino mi annoiavo molto e spesso.
È una cosa che è cominciata, visibilmente, molto presto ed è continuata per tutta la vita, a intervalli
(sempre piú rari, è vero, grazie
al lavoro e agli amici), ed è sempre rimasta visibile.
È una noia panica che arriva
fino allo sgomento: come quello che provo durante i convegni, le conferenze, le serate all'estero,
i divertimenti di gruppo:
dove la noia può
essere vista.
Forse
è la noia la mia isteria ?"

(Cit. Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, Torino, ed. Giulio Einaudi 1980, pagina 32)

 

 

 

Le immagini manicomiali di Carla Cerati sono pubblicate anche nel sito

con Piccola antologia foto-testuale

Citazioni di Franco Basaglia (a cura di Giovanna Gallio e Mario Colucci)

L’uomo e la cosa (di Franco Rotelli (1983)

La comunità possibile (di Mario Colucci, Peppe Dell’Acqua, Roberto Mezzina (1988))

I giardini di Abele [spot video] di Sergio Zavoli (Gorizia, 1967)


 

 

Nello stesso sito del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste
vi sono pure le foto di G. B. Gardin, G. Butturini, M. Conca, R. Depardon, N. Gasparo, A. Majoli, T. Neppi, U. Pannella, M. B. Smith,  M. Ulcigrai, R. Venturini, e C. Erné.

Di quest'ultimo segnalo la mostra GLI ANNI DI BASAGLIA:

Spilimbergo Fotografia 2004

 

Titolo: Claudio Erné – Gli Anni di Basaglia

Curatore: Fabio Amodeo

Sedi: Palazzo Frangipane, Tarcento

Date: 31 luglio – 29 agosto 2004

 

 

CRAF – Villa Ciani, 33090 Lestans (PN)

presidente: Elio De Anna (Presidente della Provincia di Pordenone)

direttore: Walter Liva

segreteria: Lara Zilli

Tel fax: 0427 91453

Sito: http://www.craf-fvg.it/ita/home.asp

Email: craf@cubenet.net

 

 

 

Le immagini sono state realizzate da Claudio Ernè nel periodo 1970 – 1983 nell'ambito dell'Ospedale Psichiatrico di Trieste, e ne documentano la vita dall'arrivo di Franco Basaglia alla conclusione dell'opera di riforma con la chiusura dell'ospedale stesso. Oltre ai ritratti di Basaglia, le fotografie documentano le modifiche intercorse in quel periodo nella vita dei pazienti, il progressivo estendersi delle attività legate all'apertura dell'ospedale alla società esterna, i personaggi che hanno visitato in quegli anni la struttura per documentarsi sull'esperienza (psichiatri come David Cooper, artisti come Rafael Alberti, filosofi come Guattari) o che hanno partecipato ai reseau della psichiatria, tra il 1973 e il 1977, o artisti che hanno operato nei laboratori dell'ospedale e cantanti che hanno partecipato ai concerti, come Gino Paoli o Miranda Martino.

 

 


<< "Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo". Questa è la motivazione con la quale il malato mentale entra in manicomio; in un luogo la cui funzione é - in questa motivazione stessa - già precisata come azione di tutela, di difesa del sano di fronte alla follia e dove il malato assume un ruolo puramente negativo, come se il suo rapporto con l'istituzione si svolgesse al solo livello della sua eventuale pericolosità. Da ciò deriva che se il malato - prima di essere considerato tale - è da ritenersi soprattutto pericoloso, le regole su cui l'istituzione che dovrebbe occuparsi della sua cura, si edifica, non possono essere istituite che in funzione di questa pericolosità e non della malattia di cui soffre. Per questo la figura del malato mentale, così come appare abitualmente nei nostri ospedali, è quella dell'uomo oggettivato in un istituto, la cui organizzazione ed efficienza sono sempre risultate più importanti della sua riabilitazione. >>

Cit. Franco Basaglia, Che cos'è la psichiatria

 

 


  
<< PER NON DIMENTICARE - 1968 la realtà manicomiale di "Morire di classe" >>
A cura di Franca Ongaro Basaglia
Edizioni Gruppo Abele 1998.

"La foto di copertina, Basaglia l'ha sempre scelta per i manifesti delle mostre..."


Foto di Carla Cerati © Morire di classe, Einaudi 1969
 

«...l'istituzione manicomiale ha in sé, nel suo carattere violento coercitivo discriminante, una più nascosta funzione sociale e politica: il malato mentale, ricoverato e distrutto nei nostri manicomi, non si rivela soltanto l'oggetto della violenza di un'istituzione deputata a difendere i sani dalla follia; né soltanto l'oggetto della violenza di una società che rifiuta la malattia mentale; ma è insieme, il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in balia dell'istituto deputato a controllarlo.
Di fronte a questa presa di coscienza, ogni discorso puramente tecnico si ferma. Che significato può avere costruire una nuova ideologia scientifica in campo psichiatrico se, esaminando la malattia, si continua a cozzare contro il carattere classista della scienza che dovrebbe studiarla e guarirla? L'irrecuperabilità del malato è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita. Ma questa natura non dipende direttamente dalla malattia: la recuperabilità ha un prezzo, spesso molto alto, ed è quindi un fatto economico-sociale più che tecnico-scientifico»

(cit. Franco Basaglia in "Morire di classe", Torino 1969)

Per saperne di più: http://www.photographers.it/articoli/gardin.htm

 

 

 

Per non dimenticare
1968. La realtà manicomiale
di “Morire di classe”

a cura di Franca Ongaro Basaglia

© Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998

Testo tratto dall'introduzione di Franca Ongaro Basaglia

<< Se non si parte da queste immagini che, in quegli anni, spalancarono le porte su una realtà аi più sconosciuta e, dagli addetti ai lavori, ritenuta "naturale", credo non si possa capire la durezza di questa battaglia: contro l'istituzione, contro la psichiatria che scientificamente la avallava, contro la società che ne richiedeva l'esi­stenza per mantenere l"ordine", la netta separazione fra unа normа basata sull'efficienza e l'esclusione degli elementi di disturbo o di scarto.

Queste immagini che trent'anni fa hanno fatto scalpore e hanno promosso l'indignazione di molti, vengono ora ripubblicate in una nuova versione, per non dimenticare ciò che può fare l'uomo all'uomo, ma anche ciò che possono fare scienza e società in nome della tutela, della custodia, della cura. Ciò che possono fare l'autorità e il potere, l'oggettivazione, la spoliazione di ogni diritto elementare. Ciò che può fare l'istituzione totale, psichiatrica e non, quando pretende di controllare ogni aspetto della vita e inibire ogni bisogno e de­siderio della persona, in una serializzazione utile all'efficienza dell'organizzazione ma distruttiva per il tutelato.

Solo partendo da queste immagini si può capire perché ci siano vo­luti tanti anni (nonostante unа legge emanata nel '78 ponesse le basi di un altro modo di affrontare il problema della sofferenza mentale), per arrivare a imporre la chiusura di questi istituti e riconoscere la validità delle esperienze che avevano dimostrato nella pratica la necessità e insieme la possibilità del loro superamento, attraver­so servizi diversi e una diversa cultura.

Queste immagini devono essere guardate ancora, perché questa realtà esiste ancora in molti manicomi ancora in vita e in altri in cui si va velocemente cambiando solo l'etichetta mentre la sostanza resta identica. Queste immagini devono essere guardate per provo­care l'indignazione che allora provocò l'incontro diretto con questo mondo chiuso in cui tutto il negativo della istituzione veniva impu­tato alla malattia; l'indignazione che allora portò un gruppo di psichiatri e operatori anomali а rifiutare il mandato sociale di gestire dei lager fingendo che fossero luoghi di cura; la passione civile, etiсa e politica che portò anche tanti giovani studenti e volontari a lavorare per il cambiamento, producendo una trasformazione im­pensabile in persone che risultavano annientate dalla forza, dalla sopraffazione, dalla violenza quotidiana di un ordine istituzionale che non teneva conto di loro. >>

 


Questo testo suggerisce al lettore dei ben precisi parametri interpretativi con cui valutare i testi e le foto del libro.


Ma qualcosa non torna...
 


Renzo Canestrari e Antonio Godino
, nel libro "Introduzione alla psicologia generale" (Ed. Bruno Mondadori, Milano 2002)
nel capitolo 3 "Psicofisiologia, cervello, mente" evidenziano che:


<< La realtà fisica esterna viene colta nella sua interezza solo per le parti di essa che riescono a essere recepite dagli organi di senso. Ogni organo di senso è una specie di 'finestra', che fa passare solo alcuni segnali esterni e ne esclude altri. Inoltre, ogni recettore nervoso possiede una particolare 'chiave di lettura' dei segnali specifici provenienti dall'esterno, quindi la quota di realtà che viene tradotta in segnale sensoriale (ciò che oltrepassa la 'finestra' sensoriale) viene tradotta nel particolare codice che corrisponde all'architettura dell'organo di senso di un determinato organismo... >>

<< Un modo ancora più semplice per capire le nostre sensazioni non corrispondono che a una parte della realtà
è quello di pensare a chi ha un deficit-sensoriale, a chi è sordo o cieco.
In questo caso la luce o il suono (presenti nella realtà) sono inattivi come stimolo: soggettivamente non esistono. >>  
 


Queste annotazioni ci consentono di capire meglio quanto affermato da Walter Benjamin  
a proposito delle
"indicazioni implicite nell'autenticità della fotografia"
quando queste "vengano associate per l'osservatore con indicazioni linguistiche",
 "includendo la f
оtografia nell'ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita,
e senza le quali ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa.
"

La "chiave di lettura" fornita al lettore da Franca Ongaro Basaglia
fornisce un codice di decodificazione dei segni presenti nelle immagini del libro,
che induce ad una visione parziale dei molti stimoli sensoriali altrimenti in essi percepibili.

Il lettore viene dunque condizionato ad uno stato di temporanea cecità
per cui "non vede ciò che vede" ma "vede solo ciò che si vuole che egli veda".

Questo è evidente in due foto di "infermieri" che vengono proposti come se fossero dei "matti",
al pari di tutte le altre foto presenti nel libro.

Il lettore non debitamente informato, recepisce solo una parte del messaggio presente nelle foto:

è evidente che la camicia di forza e le corde di costrizione alla barella sono molto lente
e questo non consentirebbe di immobilizzare un "pazzo" in stato di reale forte agitazione;

la ripresa effettuata con un grandangolo a distanza ravvicinata serve a spettacolarizzare l'evento
che si vuole far apparire più drammatico di quanto non lo sia nella realtà;

 la gente che circonda il soggetto è tranquilla e non mostra particolari stati di apprensione
lasciando intendere che il "matto" non è né un pericolo, né una fonte di piètas. 
 


Dall'indice delle fotografie, pubblicato a pag. 79 del libro

Per non dimenticare
1968. La realtà manicomiale
di “Morire di classe”

Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998

 

si evince che le foto pubblicate alle pagine 28 e 29

sono state scattate, al pari di altre fotografie, nell'Ospedale Psichiatrico Provinciale di Parma.

 

Questo non corrisponde ad una descrizione oggettiva dei fatti

 

Come già detto, le due immagini sono state riprese durante una pubblica manifestazione a Parma
volta a denunciare lo stato di detenzione dei "malati di mente"
all'interno delle strutture psichiatriche.

Il soggetto ripreso non è un degente costretto in una camicia di forza
ripreso all'interno del suo "naturale" ambiente manicomiale...
ma è un "infermiere precario" manifestante a cui è stata fatta indossare una camicia di forza,
per mostrare e denunciare uno dei trattamenti di costrizione subiti dai "malati di mente".

Si tratta dunque di una "simulazione" non dichiarata e decontestualizzata che,
facendo leva su quello che in psicologia della percezione è noto come effetto mascheramento,
- in cui una forte impressione impedisce la percezione di soglie inferiori -

induce il lettore a fruire di queste due immagini al pari di tutte le altre,
con un approccio drammatico e cruento con quanto (appariscente ed insolito) è in esse rappresentato,
nella convinzione pilotata, che un uomo stia veramente soffrendo davanti all'obiettivo fotografico.

Questa falsificazione della realtà è aggravata dal fatto che le due immagini non appaiono in "Morire di classe",
e sono dunque il frutto di una meditata selezione operata per aggiungere pathos al libro di Basaglia che,
con questa operazione, rischia di perdere credibilità agli occhi dei lettori meno esperti,
che non hanno operato un confronto tra "Morire di classe" e "per non dimenticare...".

La responsabilità di questa disinformazione non è certo da attribuirsi al fotografo, Gianni Berengo Gardin,
che ha scattato tutte le sue immagini nell'ambito di un reportage ad ampio respiro
finalizzato ad una dichiarata e ben precisa operazione di "denuncia sociale" voluta da Franco Basaglia
che è scaturita, negli anni '60, in varie manifestazioni di piazza.

La responsabilità della disinformazione e mistificazione operata in particolare su queste due immagini
è invece da far ricadere su chi ha selezionato e pubblicato le foto presenti nel libro
che sono state impaginate in modo da rendere difficile il doveroso distinguo tra i diversi soggetti proposti
nei confronti dei quali viene proposta una lettura univoca, parziale e dunque "falsa". 

Per una futura riedizione di questo libro, che ha certamente dei nobili fini ed una buona stampa e grafica,
è auspicabile che le foto "simulate" non siano più inglobate e confondibili con le foto "reali"
e che siano invece accompagnate da un testo che aiuti ad approfondire i temi ed il contesto che rappresentano. 



Foto di Gianni Berengo Gardin, pubblicata a pagina 28
del libro << Per non dimenticare 1968. La realtà manicomiale di “Morire di classe”
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998

 


Foto di Gianni Berengo Gardin, pubblicata a pagina 29
del libro << Per non dimenticare 1968. La realtà manicomiale di “Morire di classe”
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998


 

Queste foto pare che appaiano nel film di Salvatore Agosti "Non ho una lancia per uccidere il leone",
tratto dal libro di G.
Dell’Acqua "Non ho l’arma che uccide il leone. Storie del manicomio di Trieste.",
Ed. Libraria, Trieste - 1980 - Salvatore Agosti è stato regista anche del film "Matti da slegare".

 

 


Susan Sontag
, nel suo saggio "On Photography" tradotto "Sulla fotografia" da Einaudi nel 1978, afferma che:

"Le conseguenze dalla menzogna sono necessariamente più importanti per la fotografia di quanto potrebbero mai esserlo per la pittura" perché "le fotografie avanzano pretese di veridicità che non potrebbe mai avanzare un quadro.

Un quadro falso (cioè un quadro con un'attribuzione sbagliata) falsifica la storia dell'arte.

Una fotografia falsa (cioè una foto ritoccata o manomessa, o accompagnata da una falsa didascalia) falsifica la realtà.
 


 

 
Il semiologo francese Roland Barthes, nel saggio "Miti d'oggi"
 ( © 1974 e 1999 Giulio Einaudi Editore s.p.a., Torino), alle pagine 102/104 afferma che:

<< La maggior parte delle fotografie-choc che ci sono state mostrate sono false
in quanto hanno scelto uno stadio intermedio tra il fatto letterale e il fatto maggiorato: 
troppo intenzionali per essere fotografia e troppo esatte per essere pittura,
perdono necessariamente, a un tempo, lo scandalo della lettera e la verità dell'arte:
si è voluto farne segni puri senza risolversi a dare almeno a questi segni l'ambiguità,
il ritardo di uno spessore.
Le fotografie-choc (il cui principio rimane molto lodevole) sono le fotografie di agenzia,
in cui il fatto ripreso esplode nella sua ostinazione, nella sua letteralità,
nell'evidenza stessa della sua ottusa natura. >>

 

 

 
Walter Benjamin in "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica", Einaudi 1966/2000,
a proposito delle "indicazioni implicite nell'autenticità della fotografia" scrive:

<< ...Non sempre sarà possibile eluderle con un reportage i cui cliché comportano semplicemente che vengano associate per l'osservatore con indicazioni linguistiche.
La macchina fotografica diventa sempre piú piccola e sempre
рiù capace di afferrare immagini fuggevoli е segrete,
il cui effetto di shock blocca nell'osservatore il meccanismo dell'associazione.
A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la f
оtografia nell'ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa.>>

<< ...Non colui che ignora l'alfabeto, bensí colui che ignora la fotografia, - è stato detto, - sarà l'analfabeta del futuro.

Ma un fotografo che non sa leggere le proprie immagini non è forse meno di un analfabeta ?

La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell'immagine fotografica?

Sono queste le domande attraverso cui
lo scarto che separa i fotografi attuali dalla dagherrotipia,
si scarica delle sue tensioni storiche.>>

 

 

 
Per approfondire lo studio del sistema percettivo:
 

R. ARNHEIM R. Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 2000
 


GOMBRICH E.H.
Art Perception, and Reality, The Jhons Hopkins University Press, 1972

trad. it. Arte, percezione e realtà, Giulio Einaudi Editore s.p.a., Torino 1978/2002
 


GIBSON, J. J. The ecological approach to visual perception, Hillsdale, N. J., Erlbaum;

trad. it. Un approccio ecologico alla percezione visiva, Bologna, Il Mulino, 1999.
 

 

LA TEORIA ECOLOGICA DELLA PERCEZIONE

Aspetti filosofici e teorici nella riflessione di J. J. Gibson

- di Paola Corti -

 


<< PER NON DIMENTICARE - 1968 la realtà manicomiale di "Morire di classe" >>

rispetto alla prima edizione del libro  "Morire di classe"

ha un formato più grande e presenta testi e foto in una veste grafica più snella e meglio leggibile.


 La nuova edizione del libro non è una ristampa di Morire di classe

ma una edizione che riprende in parte l'edizione storica e ad essa s'ispira.

 


Copia della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (coll.it.2200/10) - cliccare qui per ingrandirla

 

Immagine e testo NON presenti in << PER NON DIMENTICARE...>>

Dalla copia della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (coll.it.2200/10) - cliccare qui per ingrandirla

 

L'immagine in basso NON è presente in << PER NON DIMENTICARE...>>

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Immagine NON presente in << PER NON DIMENTICARE...>>

Dalla copia della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (coll.it.2200/10)



Immagine e testo NON presenti in << PER NON DIMENTICARE...>>

Dalla copia della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (coll.it.2200/10)

 

Testo NON presente in << PER NON DIMENTICARE...>>

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Importante segnalazione NON presente in << PER NON DIMENTICARE...>>

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La legge 13/5/1978, n. 180, ha posto fine al vecchio sistema manicomiale basato essenzialmente sulla legge n. 36 del 14 febbraio 1904, intitolata "Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati".

Alcuni testi utili a comprendere il clima politico e sociale
nel quale hanno preso vita la LEGGE 180 ed il progetto "Morire di classe"



"L'istituzione negata" di Franco Basaglia, Baldini&Castoldi, Milano 1968

"La fabbrica della follia : relazione sul manicomio di Torino"
a cura dell'Associazione per la lotta contro le malattie mentali Sezione Autonoma di Torino, Einaudi, 1971
Documentazione raccolta dalla Commissione di tutela dei diritti dei ricoverati negli Ospedali Psichiatrici di Torino.

"Portami su quello che canta : processo a uno psichiatra"
di Alberto Papuzzi, scritto con la collaborazione di Piera Piatti, Einaudi 1977

Una falsa alternativa alla "fabbrica della follia": l'espediente gattopardesco della provincia di Torino
a cura dell'Associazione per la lotta contro le malattie mentali. Sezione autonoma di Torino, Einaudi 1977
 


Copia della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (AKC 4787) - cliccare qui per ingrandirla

 



 


La follia per immagini.

Storia fotografica della fine dei manicomi

http://jcom.sissa.it/article/art030203_or.html
 

 

 

 

Carla Cerati

Nata a Bergamo, vive e lavora a Milano. Comincia la professione nel 1960 come fotografa di scena con il regista teatrale Franco Enriquez. Allarga la sua sfera d’interessi al reportage sulle più varie sfere sociali, includendo il paesaggio urbano; nel corso degli anni dedica particolare attenzione al ritratto, ai giovani, agli intellettuali, agli emarginati. Come narratrice esordisce nel 1973 presso Einaudi con Un amore fraterno, finalista al Premio Strega. Da allora pubblica numerosi romanzi, tradotti in diverse lingue, che le procurano un affezionato pubblico che apprezza la sua capacità unica di ritrarre i fatti quotidiani elevandoli alla sensibilità universale.

Pubblicazioni:

Un amore Fraterno, Einaudi 1973                                   (Finalista al Premio Strega)
Un matrimonio perfetto
,
Marsilio 1975                            (Premio selezione Campiello)
Scellamozza, Einaudi, 1975
Morire di classe, Einaudi, 1976
La condizione sentimentale, Frassinelli 1977                (
Premio Radio Montecarlo)
Forma di donna, Mazzotta, 1978
Uno e l’altro, Rizzoli 1983                                                  (Premio Milano e Città della Scala)
La barca gialla, Einaudi, 1985
La cattiva figlia, Frassinelli 1990                                     
(Premio Comisso)
Un matrimonio perfetto, Frassinelli, 1991
La perdita di Diego, Frassinelli, 1992                              (
Finalista al Premio Strega)
Un amore fraterno, Frassinelli, 1993
Legami molto stretti, Frassinelli, 1994
L’amica della modellista, Frassinelli, 1996
La cattiva figlia, Frassinelli, 1996
Il sogno della bambina, Frassinelli, 1997
Grand Hotel Riviera, Frassinelli, 1998
La condizione sentimentale, Frassinelli, 1999
La seconda occasione, Frassinelli, 2001
La cattiva figlia, Sperling Paperback, 2001
L'intruso, Marsilio Editori, 2004


 

Segnalazione © Luca B. Pagni, Roma 2004

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