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Maternity Blues
Non sono un’ombra, anche se un’ombra si diparte da me. Sono una moglie.
Sylvia Plath, “Three Women”
Nella contingenza attuale pare sia diventato tristemente di moda dibattere sulla “questione femminile” e sul ruolo acquisito dalla donna. In una società che pretende di essere tecnologica e moderna ma che in realtà rimane di radice maschilista, in cui la parità appare ancora un miraggio lontano e il femminismo introiettato e superato, fior di sociologi amano riempirsi la bocca, in televisione o sulla carta stampata, di soluzioni pronte in mano, senza rendersi pienamente conto di quanto la verità stia da un’altra parte. Già dagli anni ’90 un numero nutrito di artiste ha abbandonato il cosiddetto filone di arte al femminile per registrare una visione assai poco edulcorata della condizione attuale della donna, sia con il recupero della tradizione sul versante artigianale e mnemonico che con lo scardinamento della stessa attraverso forme, anche a volte esteticamente eccessive, di protesta.
Oriella Montin, con il ciclo di opere “Rammendo – Mending” si inserisce all’interno di questa linea di pensiero con una poetica individuale – che prende spunto dal dato autobiografico - particolarmente intrigante, utilizzando vechie fotografie raccolte ai mercatini per ricostruire un mondo passato ma ancora prepotentemente attuale. L’artista, prendendo in mano ago e filo di cotone, decontestualizza con attenzione perfettamente calibrata, situazioni giocate sul limite del tempo. E non è soltanto il riportarci a una memoria lontana che le interessa, quanto il poter ricreare a modo suo, come su un ipotetico telaio del vissuto, storie e vicissitudini immaginate attraverso moltitudini di famiglie sconosciute, con uno stile particolarmente definito e originale. Il ruolo femminile, giocato all’interno di dinamiche familiari, diviene così viatico di ricomposizione di un’identità viva e ancora in essere.
Oriella Montin seleziona avvenimenti precisi e momenti salienti di una vita (nascita del primo figlio, compleanno) per intervenire con una pratica, quella antica e domestica del rammendo, che simboleggia una condizione di cattività e nello stesso tempo di amore incondizionato quale quello materno. La Maternità si legge attraverso gli interventi di disturbo come simbolo di fertilità e dell’archetipo universale della Madre Terra, e si mostra con visi di madri senza età, fattrici pazienti, mogli devote o ribelli, schiave e padrone, un tempo come ora chiuse tra le mura della casa, gabbia dorata nella quale volenti o nolenti sono costrette tuttora a stare, poiché la società impone questo. Nelle opere appese a parete o sospese al soffitto per dare la possibilità di poterci girare attorno, Oriella Montin lega ed ingarbuglia, la mamma e il bambino nel rapporto viscerale e contraddittorio che spinge a volte le madri ad arrivare a gesti estremi e incomprensibili come quello di togliere la vita ai figli o di sacrificare la vita per loro. L’ispirazione arriva dalla letteratura, dai romanzi di Richard Yates, che racconta le miserie familiari della middle class americana, da figure controverse e tragiche come Sylvia Plath ed Emily Dickinson, che parlano una lingua che appartiene soltanto a loro, con parole che evocano la gioia e sofferenza del parto, lo stordimento dell’abbandono, la tenerezza.
Oriella Montin agisce con una modalità cruda e poetica al contempo, cucendo ed aggrovigliando fili e pezzi di esistenze come le nostre genitrici riparavano con gesti rassicuranti brani di vestiti, delineando strade contorte e percorsi accidentati non lineari - come quelli della quotidianità che riserva sorprese amare – cancellando in modo cruento volti, ingabbiando corpi, scegliendo con cura parti anatomiche, cuore o cervello, prendendo la mira per colpire con esattezza e rammendare quella ferita più o meno aperta che ognuno porta con sé. Il gesto fissa e imprime così la traccia indelebile della conservazione delle ore passate, portatrice di emozione e di riflessione sulla fragilità della vita umana. Attraverso un contorto viaggio nel passato e l’ingabbiamento delle misteriose vite degli altri che Oriella Montin riporta alla luce, sviscerando la difficoltà dei rapporti, grazie anche a veri e propri collages che assemblano un mondo di volti ed eventi vissuti, talvolta scegliendo composizioni maggiormente concettuali, altre volte invece invadendo completamente l’immagine fotografica con un fitto ricamo ed elementi che si muovono su di uno straniamento surrealista, il messaggio arriva chiaro. Il concetto della famiglia di origine, giocato su una doppia valenza semantica come luogo di serenità e di affetti profondi, protezione e cure ma anche fonte di conflitti insanabili, è il punto di partenza e il filo del ricordo ciò che la unisce, mentre il bianco e nero delle fotografie neutralizza le differenti personalità accumunandole ad uno stesso destino. A chiudere la visione è il vetro sul fronte e una lastrina di plexiglas sul retro in modo da lasciare intravedere le strade e i percorsi del cucito. La garza medica ricopre la vecchia cornice, simbolo affettuoso del curare, a volte bianca altre volte annerita dal caffé, scelto come alimento quotidiano e metafora di atmosfera casalinga. Ma quel tempo perduto e struggente, recuperato anche con alcuni album su cui l’autrice ricuce eventi personali, presuppone l’affascinante segreto e la volontà di non sapere né denunciare. Poiché lo sanno tutti che dal groviglio dei legami familiari è difficile liberarsi. E quasi mai se ne esce senza farsi del male.
Testo critico di Francesca Baboni per la mostra personale di Oriella Montin "Rammendo - Mending" presso la Galleria VV8artecontemporanea di Reggio Emilia nel maggio del 2013.