Testi » Fotografia & Dintorni » Scheda Articolo

Ripercorrendo
le “strade” della follia è come camminare per un sentiero lastricato di dolore
e urla strazianti. I padiglioni fatiscenti nel mio libro L’interruttore del buio. Un
reportage fotografico a trent’anni di distanza dall’approvazione della 180,
ancora pregni del fetore di urine e feci, trasudano le lacrime di chi ha subito
le inumane terapie elettriche. Il manicomio è stato per quasi un secolo, un
luogo, ma sarebbe meglio dire un “non luogo”, dove venivano dimenticati uomini
e donne per la sola colpa di essere malati. Essere poveri, “mentecatti”,
anarchici, poeti, dissidenti, figli illegittimi, disabili, e infine folli ha
significato spesso “scomparire” nell’ombra, nascosti alla vista di chi è stato
fagocitato dalla logica perversa: “se sei in grado di produrre sei sano, se non
sei in grado di produrre sei malato”. Così come ricordavano Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati nel libro Morire di
classe un’
Vagando
cerchi nuovi riferimenti a cui aggrapparti. Spesso anche un Cristo divelto
dalla parete e alloggiato su un porta-saponetta, con il volto bruciato, diventa
l’icona di un nuovo mondo. Si ribaltano concetti semplici ed elementari. Non
esiste più famiglia, la corrispondenza è negata, l’esterno diventa sempre più
un concetto astratto. Molto spesso anche vedere il sole diventa un evento. Le parole
d’ordine sembrano essere: mutare, uniformarsi, alienarsi. Il silenzio che
pervade il manicomio deserto è assordante. È un silenzio che ti obbliga a
riflettere e a porti domande. Ti rendi conto di quanto i confini tra il
“normale” e il “matto” siano labili, e di come sia semplice varcarli. Quanto
triste e inesorabile sia il cammino verso la “guarigione”. La prima cosa che si
percepisce varcando un massiccio portone d’ingresso di un qualsiasi manicomio è
il buio e il freddo. Buio non solo perché l’abbandono, la mancanza di energia
elettrica non permette l’illuminazione… si tratta di un buio interiore oltre
che fisico. Un buio che sembra quasi di poterlo toccare. Il freddo ti entra
dentro anche d’estate. Non occorre aver studiato ciò che accadeva; perfino
nella più totale ignoranza è evidente, netto, ciò che rappresentava quel luogo.
A
trent’anni di distanza credo sia necessario e, in qualche misura obbligatorio,
ricordare e interrogarsi nuovamente su ciò che è stato e su ciò che non dovrà
più essere. Spesso sull’onda delle notizie di cronaca, i mass media ripropongono
come unica e inesorabile soluzione alla “follia” la riapertura dei manicomi. La
legge 180 che invece ha “aperto” i cancelli è una grande conquista sociale che
molto spesso è rimasta disattesa.
Attraverso
i miei scatti ho cercato un passato che non ho vissuto e che ho voluto
raccontare soprattutto alla mia generazione, affinché l’orrore del manicomio
diventi un monito.