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L’arte della commedia
Campese capo comico: ” Ritengo che il teatro si dibatta in un clima di assoluta confusione, la quale determina nel pubblico quel tale disorientamento che viene interpretato, non sappiamo se in buona o mala fede, come crisi teatrale” I capolavori di Eduardo/Einaudi.
Questione nominalistica più che altro o che il teatro sta alla finzione/vita come l’illusione sta alla fotografia o reportage, e qui di guerra. Senza scomodare Shakespeare, l’esistenza null’altro se non teatralità, il problema della rappresentazione fotografica e d guerra pure è “confusione” come da incipit. Infatti, è di questi ultimi giorni che altri due fotoreporter arrivano alla fine delle loro pista: morti in Libia coloniale. E forse il caso di domandarsi se non lo sia anche il “genere” anche perché il combattimento è impari: fotografia e tivù Grande Fratello. Icona e già medium per eccellenza ha inoculato nell’immaginario collettivo squassi che ben difficilmente un “teledipendente” anche colto riescono a “discernere” di fronte alla migliore foto e del migliore News. Una guerra persa ancor prima di cominciare perché il modulo linguistico del reporter è modulato su quello televisivo, sì, dagli effetti devastanti e pur sempre utile alla regia, sul piano della comunicazione. Una rincorsa da lepre (tivù) e tartaruga (reportage) già scritta a favore della marzolina. Tubo catodico che fa del campo corto/medio la sua ideologia; tale che nelle immagini di Libia, anche quando a parlare è il Rais genuflesso sino al giorno prima dagli stessi potentati che oggi lo vogliono morto, i quattro gatti dati per insorti tali restano anche se non così per lo streaming in pasto ai teledipendenti. Non smossi neanche dall’osservazione: possibile che la Libia così grande altro non sia che quella, proprio quella, rotabile? E dove sempre su quell’orizzonte degli eventi, la stessa Toyota pikup dei tre giovani armati, sul Corrierone nazional popolare la Repubblica degli altri, trova nella Stampa la sua acme libertaria. Anzi, uno di essi disceso finalmente dal mezzo più in là compie, accosciato dietro un tumulo di sabbia, la sceneggiata di tirare al vento. Una strada quattro insorti e per gradire una facciata di casa abilmente sforacchiata. Pur sempre in campo medio corto. Una guerra on the road ancor prima che virtuale. Cui risponde una fotografia grandangolare, in onore al prescritto di Bob Capa, dal taste yankee del compiacersi lussurioso del sangue, della macelleria. Una scia di sangue e un gusto orrido che pare risponda, di sponda, alla pianificazione esoterica/mente che è la guerra di Libia. Sembrano le foto inquadratura dei C.S.I. E di nuovo l’immagine televisiva spacciata per reportage, competizione che si sposta dal piano semantico, a quello terra terra della macelleria. E siccome la scatola delle meraviglie in tempo “reale” con tanto di fantocci speaker televisivi, la fa ormai da padrone incontrastata, la fotografia di reportage di guerra è morta come i reporter ed i morti che immortala. Questo perché i tempi e le narrazioni, le nuove leve, si muove, ancora, in universo segnico televisivo che nulla ma proprio nulla sparte con la fotografia.
E solo un caso forse oppure no che la narrazione, pomposamente detta slideshow, dalle pagine del New York Times si concentra sull’immagine; sì, singole ma n sequenza “audiovisuale”. Certo per ora è il genere street, chissà alla H.B.C. Bresson o Doisneau che sia. Poiché non è televisione e neanche reportage sanguinario può anche essere una svolta. Business as usual.
link:
big photo http://www.boston.com/bigpicture/2011/04/photojournalist_chris_hondros.html
Magnum
http://www.magnumphotos.com/C.aspx?VP3=ViewBox_VPage&VBID=2K1HZOX9PVFO7&CT=Search&DT=Image
New York Times
http://www.nytimes.com/packages/html/nyregion/1-in-8-million/index.html
Ps Viene alla mente "Piedi di un soldato etiopico, 1935" di Alfred Eisenstaedt; una fotografia coloniale di altra epoca pur sempre guerra di Africa. Nell’immagine in campo medio i piedi visto dal tallone di Achille, nudi ma con le “pezze” alla caviglia come i fanti della I Guerra Mondiale. Senza scarpa e per suola la pelle indurita dal calpestio con la terra. Etiope assoldato nella sua Africa per combattere, conto terzo, una guerra verso altri africani. Fotografia conchiusa e che narra “la” guerra d’Africa di cui pure la Libia è parte giova ricordarlo.