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ll “Corriere della Sera” dello scorso 28 novembre ha dedicato due pagine intere all’appuntamento milanese “Fotografica 09”, organizzato dalla Canon nel capoluogo lombardo (26-29 novembre, al “Centro Forma” di Piazza Tito Lucrezio 1). Una kermesse di incontri con professionisti, tecnica, analisi, dibattiti sull’arte fotografica. Nella stessa pagina, poi, ospita un’opinione di Fabrizio Ferri, un fotografo che lavora al progetto “Aria”, che praticamente annuncia la fine della fotografia come disciplina. Possibile?
Ferri ritiene, infatti, che «la fotografia è morta», cioè è morta quella disciplina che abbiamo fino ad ora conosciuto. Lo scatto come supporto o elemento fondamentale della “memoria”. Roland Barthes, in un famoso saggio degli anni Settanta (“La camera chiara”) studiò a fondo i meccanismi della fotografia, giungendo alla riflessione per cui essa è una sorta di “antidoto alla morte”. Con la fissazione su carta di un’immagine, l’uomo è riuscito, secondo Barthes, a rendersi immortale.
Ora, però, il problema sarebbe, per Ferri, che è morto lo strumento e non si capisce bene perché. Secondo l’autore, ciò che oggi predomina l’era digitale è il movimento, il dinamismo, cioè, in sostanza, il video. Le persone preferirebbero l’animazione, i video su “Youtube”; un avvenimento può essere narrato in modo esponenziale soltanto con il dinamismo del movimento filmato e non più con la fotografia. Vivremmo in un periodo nel quale «la staticità non serve» ma «serve il movimento, serve il dinamismo». La fotografia, in altri termini, non riesce ad adeguarsi ai nuovi strumenti della comunicazione (i-pod o il personal computer), semplicemente perché non può farlo. È la sua essenza tecnica ad impedirglielo e non c’è niente da fare. Per questo motivo, Ferri individua soltanto un ambito in cui la fotografia potrà svolgere un ruolo: non più quello del “ricordo” barthesiano (l’antidoto alla morte) ma della “testimonianza” ma ciò non vorrà più dire assegnare a questa attività umana la funzione di “documentazione”.
Insomma cosa sia, e soprattutto cosa sarà, la fotografia non si capisce bene. Nelle idee un po’ confuse di Ferri emerge un’impostazione inconsapevole. Con la nascita del cinema (fine Ottocento) si disse che la fotografia sarebbe morta. Con la diffusione del “formato ridotto” (il mitico “Super 8”, anni Sessanta-Settanta del Novecento) si disse che, da quel momento, con la diffusione universale delle possibilità di filmare, l’immagine statica sarebbe scomparsa. E così oggi la catastrofica previsione si ripercuote in questo tipo di riflessione. Ma ovviamente non è vero niente e tutte queste analisi sono frutto semplicemente di una mancata comprensione della fotografia, che è cosa del tutto diversa dal cinema, dal movimento filmico. Lo dimostra la realtà. Proprio nel massimo sfruttamento delle tecnologie digitali, è in espansione l’acquisto e l’uso di apparecchi fotografici. Le immagini “statiche” riempiono miliardi di pagine di siti internet, con un’appeal estetico superiore agli sfocati e ai mossi di youtube.
La fotografia è un tipo di scrittura totalmente diversa da quella filmica, che pure si fonda su un sintagma comune: l’immagine singola. Ma è la fruizione che modifica il significato: l’azione del film cancella l’istante del fotogramma che invece la fotografia esalta, tramutando – nei casi dei grandi autori – lo “sguardo” in “osservazione”.
Il tempo, poi, fornisce alla foto quell’aura che già Walter Benjamin giudicava perduta nel momento della “riproducibilità tecnica” dell’opera d’arte. Oggi un’immagine di Nadar, di Cartier Bresson, di Salgado è assimilabile ad un “quadro”, istantanee frutto dell’intelletto dell’autore, intorno alle quali ogni significato di “dinamicità” e “staticità” perde qualsiasi senso compiuto. Se non si comprende questo, non si è compreso nulla della fotografia, espressione non del mezzo tecnico ma del pensiero.