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Immagini » Reportage » Scheda Progetto

La valle del Belice: le rovine nel cuore
Autore: Marco Ristuccia - Pubblicato il 10/01/11 - Categoria Reportage
Il 14 gennaio 1968 la più violenta di una serie di scosse di terremoto distrusse totalmente i paesi siciliani di Gibellina, Salaparuta e Poggioreale e produsse danni ingenti a uomini e cose nella Valle del Belice, su una estensione di circa duecentottanta mila ettari ricadenti prevalentemente nella provincia di Trapani. Il numero dei morti e dei feriti gravi fu elevato (migliaia) poiché la scossa distruttiva colse nel sonno le sfortunate popolazioni. L’impatto emotivo fu altissimo ed ebbe una vasta eco sulla stampa. Ma le istituzioni pubbliche si trovarono impreparate ad affrontare l’emergenza; si mossero più lentamente e disordinatamente del notevole numero di volontari venuti a soccorrere, in varie forme, le popolazioni colpite.
Di tale fenomeno va sottolineato un aspetto singolare: gran parte delle persone (soprattutto intellettuali e studenti, con una carica ideologica da Sessantotto), sopraggiunte da varie parti di Italia e anche dall’estero, usarono quella occasione per sperimentare utopie e ipotesi di «politica partecipata» su un campo ritenuto (a torto o a ragione) fertile per la sua presunta condizione di tabula rasa sia dal punto di vista materiale che culturale.
Così, a partire da quella fatidica data, in un susseguirsi di gestioni e responsabilità da parte del governo centrale prima e delle amministrazioni locali dopo, l’intera vicenda fu utilizzata come spunto per la sperimentazione di piani di ricostruzione che si spingessero più in là del semplice recupero dei danni strutturali, fino a far transitare nella «modernità» le popolazioni coinvolte.
Così vennero concepiti piani urbanistici, infrastrutture, arterie autostradali e soprattutto la ricollocazione degli abitanti in aree dichiarate «geologicamente sane», in realtà situate a pochi chilometri più in là delle rovine. Sebbene ci furono alcune reazioni contrarie da parte delle popolazioni, e specificatamente per quanto riguarda i paesi che non erano stati rasi al suolo dal sisma bensì dalle ruspe, alla fine esse si fecero convincere ad abbandonare i loro luoghi di origine. Sulla fiducia delle promesse di rivalutazione e crescita industriale fatte delle amministrazioni, e transitando per un periodo molto lungo di sopravvivenza nelle baraccopoli (dieci anni), i terremotati alla fine vennero ricollocati nei nuovi paesi ricostruiti. Grandi architetti, artisti e intellettuali locali e nazionali furono chiamati ad erigere opere disseminate nei quartieri ricostruiti. Alberto Burri, Mario Schifano, Franco Angeli, Andrea Cascella, Pietro Consagra, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino e Leonardo Sciascia lasciarono un autorevole segno della loro presenza nella valle del Belice.

Nell’estate del 2010 sono stato a visitare questi luoghi e ciò che ho percepito è un chiaro fallimento di tutte le utopie e i grandi progetti sopra sintetizzati. I paesi ricostruiti, spesso sovradimensionati rispetto alla popolazione che realmente vi abita, sembrano deserti, squallidi e impersonali. Nessuna grande evoluzione industriale, edile o culturale pare alla fine essere scaturita dalla ricostruzione. Immagino i cuori di coloro che vissero la tragedia ancora lì, nell’antico paese, nelle vecchie strade, nelle tradizioni infrante dagli ambiziosi progetti di ricostruzione e rilocalizzazione concepiti senza pensare alla vita quotidiana delle popolazioni locali e illudendosi di creare un futuro migliore attraverso il semplice trapianto di sovrastrutture esogene.

Il progetto è stato sviluppato attraverso l’uso di dittici. Ciascuna coppia è composta da una foto delle antiche rovine dei paesi distrutti dal terremoto (a sinistra) e da una fotografia del paese ricostruito (a destra) scattata attraverso il suo riflesso in uno specchio (vero) infranto. I due luoghi affiancati sono stati combinati attraverso la loro forte similitudine strutturale o concettuale. L’idea è quella di rappresentare visivamente la contrapposizione tra il vecchio paese, distrutto dal terremoto ma amato dai suoi abitanti, e il nuovo paese, intatto strutturalmente ma infranto nel cuore degli abitanti (le crepe dello specchio).
L’atmosfera cupa delle fotografie, quasi completamente desaturata (più le rovine che il nuovo) e leggermente evanescente ai bordi, rappresenta un tentativo di comunicare a livello emotivo il dramma della tragedia accaduta e la sua appartenenza ad un passato ormai remoto.

Alla luce delle recenti vicende accadute in seguito al forte sisma verificatosi in Abruzzo e alle ormai note polemiche sui conseguenti piani di ricostruzione, l’augurio è quello di non ripetere gli errori fatti nel passato e di restituire in tempi ragionevoli alle vittime del terremoto una dimora che abbia una propria identità storica e un legame forte con il territorio e la vita locale.
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