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Volti positivi
Autore: Silvia Amodio
- Pubblicato il 10/05/09 - Categoria People|Ritratti
Ci sono 40 milioni di sieropositivi nel mondo, il 70% dei quali vive in Africa. Su 10 bambini orfani a causa del virus, 9 vivono in Africa.
La scrittrice sudafricana, Sindiwe Magona, mi ha spinto ad occuparmi di questo problema. Sindiwe è cresciuta sotto lo stretto regime dell’apartheid, poverissima, sola con tre bambini si è laureata per corrispondenza fino ad arrivare alle Nazioni Unite di New York dove ha lavorato per 26 anni.
L’ho raggiunta a Città del Capo e lì ho lavorato un mese e mezzo. Ben presto mi sono resa conto del ruolo fondamentale delle chiese per le persone sieropositive nelle township, ed è proprio intorno alle chiese che ho svolto molto del mio lavoro. Ho conquistato un po' alla volta la fiducia degli abitanti e raccolto molte testimonianze, alcune delle quali particolarmente toccanti. Il problema dello stigma per i malati di Aids è molto forte ed è una delle ragioni che contribuisce a diffondere l’epidemia. E’ meglio evitare di fare il test e non sapere di essere sieropositivi piuttosto che venire etichettati ed essere cacciati dalla comunità.
Non mi piace l’idea di scattare una fotografia senza chiedere il permesso, penso che sia un gesto invadente. Per questa ragione mi sono organizzata, in modo che le persone fossero libere di farsi fotografare solo se lo desideravano. Portavo con me un semplice telo bianco che all’occorrenza attaccavo sul muro di una chiesa o di una baracca con del nastro adesivo. In questo modo i soggetti sono stati simbolicamente estrapolati dal loro contesto di miseria e ricollocati in una dimensione che potesse esaltarne tutta la loro forza e dignità. Volevo riservare loro tutta l’attenzione che si riserva a una persona quando la si ritrae in maniera “ufficiale” in un’occasione importante.
Molti di loro sono malati, altri non lo sono e altri ancora, probabilmente, non sanno di esserlo. Nella mostra intenzionalmente non ho voluto indicare i malati, per non cadere nel tranello dell’etichettamento e per ricordare che i malati possono essere fra di noi. Tutti possiamo essere portatori inconsapevole dell’infezione, il virus è subdolo, non si vede e per molti anni non si manifesta. Ecco il senso dello specchio in questa installazione:chiunque può trovarsi al posto loro. Lo specchio è anche un invito a riflettere sulla situazione nel nostro paese. L’Aids non è lontano, è presente anche in Italia e rappresenta una minaccia per tutti. Non esistono categorie a rischio ma comportamenti a rischio; colpisce indipendentemente dal colore della pelle, dall’età, dall’educazione, dalla cultura e dalla condizione economica.
Eppure i volti che ho fotografato sono volti positivi e pieni di speranza, un aspetto della tragedia che volevo testimoniare con il mio lavoro.
La scrittrice sudafricana, Sindiwe Magona, mi ha spinto ad occuparmi di questo problema. Sindiwe è cresciuta sotto lo stretto regime dell’apartheid, poverissima, sola con tre bambini si è laureata per corrispondenza fino ad arrivare alle Nazioni Unite di New York dove ha lavorato per 26 anni.
L’ho raggiunta a Città del Capo e lì ho lavorato un mese e mezzo. Ben presto mi sono resa conto del ruolo fondamentale delle chiese per le persone sieropositive nelle township, ed è proprio intorno alle chiese che ho svolto molto del mio lavoro. Ho conquistato un po' alla volta la fiducia degli abitanti e raccolto molte testimonianze, alcune delle quali particolarmente toccanti. Il problema dello stigma per i malati di Aids è molto forte ed è una delle ragioni che contribuisce a diffondere l’epidemia. E’ meglio evitare di fare il test e non sapere di essere sieropositivi piuttosto che venire etichettati ed essere cacciati dalla comunità.
Non mi piace l’idea di scattare una fotografia senza chiedere il permesso, penso che sia un gesto invadente. Per questa ragione mi sono organizzata, in modo che le persone fossero libere di farsi fotografare solo se lo desideravano. Portavo con me un semplice telo bianco che all’occorrenza attaccavo sul muro di una chiesa o di una baracca con del nastro adesivo. In questo modo i soggetti sono stati simbolicamente estrapolati dal loro contesto di miseria e ricollocati in una dimensione che potesse esaltarne tutta la loro forza e dignità. Volevo riservare loro tutta l’attenzione che si riserva a una persona quando la si ritrae in maniera “ufficiale” in un’occasione importante.
Molti di loro sono malati, altri non lo sono e altri ancora, probabilmente, non sanno di esserlo. Nella mostra intenzionalmente non ho voluto indicare i malati, per non cadere nel tranello dell’etichettamento e per ricordare che i malati possono essere fra di noi. Tutti possiamo essere portatori inconsapevole dell’infezione, il virus è subdolo, non si vede e per molti anni non si manifesta. Ecco il senso dello specchio in questa installazione:chiunque può trovarsi al posto loro. Lo specchio è anche un invito a riflettere sulla situazione nel nostro paese. L’Aids non è lontano, è presente anche in Italia e rappresenta una minaccia per tutti. Non esistono categorie a rischio ma comportamenti a rischio; colpisce indipendentemente dal colore della pelle, dall’età, dall’educazione, dalla cultura e dalla condizione economica.
Eppure i volti che ho fotografato sono volti positivi e pieni di speranza, un aspetto della tragedia che volevo testimoniare con il mio lavoro.
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buon lavoro.