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un luogo neutro
Autore: franco sortini fotografo
- Pubblicato il 29/07/16 - Categoria
Architettura
<p><strong>Cristina Tafuri</strong><strong> </strong><strong> </strong><strong>Un luogo neutro <em>A neutral place</em></strong></p>
<p>Storicamente chiusa nella specificità del proprio linguaggio, inteso come attestazione, certificazione di veridicità del reale, tanto caro al dogma dell’attimo fuggente di Cartier- Bresson, la fotografia, così intesa, per anni, ha dato l’idea di essere una forma d’arte precaria e fortemente instabile, se pensata esclusivamente alla sua autoreferenzialità. Ma da molto tempo quell’attimo fuggente, quel momento decisivo, non è più stabilito in relazione ad un evento teso a rappresentare veridicità, bensì rappresenta il momento in cui quel flusso di forme e di schemi in evoluzione davanti al fotografo raggiungono il punto di equilibrio, una loro nitidezza, un loro ordine. E questo punto di equilibrio si avverte nell’ultimo lavoro di Franco Sortini. In queste fotografie che Sortini ha definito “le sue passeggiate”, non c’è un racconto fotografico, ma è una sorta di attraversamento in cui la fotografia pone una serie di domande sull’identità di un luogo e anche sull’aspetto emozionale di essere in un luogo. Le immagini, infatti, di queste città sono, per alcuni aspetti, volutamente complicate perché manca la riconoscibilità del luogo. Infatti la città vista dall’alto rivela i suoi lineamenti fondamentali in rapporto al territorio, la sua struttura, i suoi punti focali. L’immagine dall’alto della città murata era facilmente leggibile: la cerchia di mura delimitava nettamente il confine verso la campagna, il tessuto urbano era omogeneo, con pochi fuochi chiaramente individuabili, chiesa, municipio, piazza del mercato. L’immagine delle nostre città attuali è molto più complessa e confusa. Le funzioni delle sue parti e dei suoi edifici raramente sono individuabili, attraverso le loro qualità spaziali. Oggi siamo strangolati e soffocati da una attività progettistica che ci ha circondato di metropoli antropofaghe, di squallide cittadine improntate a una mancanza d’ordine, di campagne mortificate lungo le ferrovie e le autostrade, costellate di meschine costruzioni puramente utilitarie, ombreggiate da pali della luce e appestate di esalazioni di benzina. Eppure l’occhio attento del fotografo è riuscito, attraverso alcuni dettagli architettonici, a farci capire come questi rispecchiano quasi sempre l’ordinamento politico e le leggi che nei vari periodi hanno informato le città; la sua rigidezza, la maggiore libertà e talora persino l’irregolarità e il disordine manifestato sono indice di una più stretta disciplina gerarchica o di una più larga libertà delle popolazioni. Proprio perché la fotografia assurge a territorio privilegiato dell’analisi del reale, secondo parametri individuali che tendono a isolarne un singolo aspetto per ampliarne al massimo il potere evocativo. Come Cezanne quando dipinse il “traforo”, oggi alla Neue Staatsgalerie di Monaco , non fu certo guidato nella scelta del soggetto da particolari attrattive di questo spoglio pezzo di campagna con la casa su un rialto, la montagna nello sfondo e l’imbocco del tunnel al centro. Il luogo suggerì soltanto alcuni motivi di forma, che egli poi realizzò in modo tutto personale con quella sua pennellata densa, che dà spessore ai piani di colore e identifica pertanto il volume con la stesura cromatica, mentre lo spazio si realizza anch’esso attraverso scalature di volumi. Così come nelle foto di Sortini davanti ad un luogo non passivamente osservato, ma “ripreso” non per qualche insita bellezza ma perché si presta a essere interpretato come massa di volumi, ombre e luce. Ed in queste foto l’unica tensione che si avverte è tra la materia e la luce. In effetti, come suggerisce Jean-Claude Lemagny, la fotografia è proprio l’arte dove questi due aspetti del reale si manifestano, non più per imitazione o finzione, ma in diretta, per contatto. Un paesaggio, una veduta qualsiasi, infatti, non esiste al di fuori dell’occhio di chi lo guarda, che è il nostro occhio stesso che dà un significato alle cose guardate, che ciascuno di noi del resto vede diversamente dagli altri. E le città che ha fotografato Sortini, grazie alla luce che le inonda, dovuta naturalmente alla grande capacità ed esperienza dell’artista, non sembrano più “ammassamenti innaturali”, ma appaiono più libere, più aperte, proprio perché la materia vuole durare e la luce vuole salvarsi.</p>
<p>Storicamente chiusa nella specificità del proprio linguaggio, inteso come attestazione, certificazione di veridicità del reale, tanto caro al dogma dell’attimo fuggente di Cartier- Bresson, la fotografia, così intesa, per anni, ha dato l’idea di essere una forma d’arte precaria e fortemente instabile, se pensata esclusivamente alla sua autoreferenzialità. Ma da molto tempo quell’attimo fuggente, quel momento decisivo, non è più stabilito in relazione ad un evento teso a rappresentare veridicità, bensì rappresenta il momento in cui quel flusso di forme e di schemi in evoluzione davanti al fotografo raggiungono il punto di equilibrio, una loro nitidezza, un loro ordine. E questo punto di equilibrio si avverte nell’ultimo lavoro di Franco Sortini. In queste fotografie che Sortini ha definito “le sue passeggiate”, non c’è un racconto fotografico, ma è una sorta di attraversamento in cui la fotografia pone una serie di domande sull’identità di un luogo e anche sull’aspetto emozionale di essere in un luogo. Le immagini, infatti, di queste città sono, per alcuni aspetti, volutamente complicate perché manca la riconoscibilità del luogo. Infatti la città vista dall’alto rivela i suoi lineamenti fondamentali in rapporto al territorio, la sua struttura, i suoi punti focali. L’immagine dall’alto della città murata era facilmente leggibile: la cerchia di mura delimitava nettamente il confine verso la campagna, il tessuto urbano era omogeneo, con pochi fuochi chiaramente individuabili, chiesa, municipio, piazza del mercato. L’immagine delle nostre città attuali è molto più complessa e confusa. Le funzioni delle sue parti e dei suoi edifici raramente sono individuabili, attraverso le loro qualità spaziali. Oggi siamo strangolati e soffocati da una attività progettistica che ci ha circondato di metropoli antropofaghe, di squallide cittadine improntate a una mancanza d’ordine, di campagne mortificate lungo le ferrovie e le autostrade, costellate di meschine costruzioni puramente utilitarie, ombreggiate da pali della luce e appestate di esalazioni di benzina. Eppure l’occhio attento del fotografo è riuscito, attraverso alcuni dettagli architettonici, a farci capire come questi rispecchiano quasi sempre l’ordinamento politico e le leggi che nei vari periodi hanno informato le città; la sua rigidezza, la maggiore libertà e talora persino l’irregolarità e il disordine manifestato sono indice di una più stretta disciplina gerarchica o di una più larga libertà delle popolazioni. Proprio perché la fotografia assurge a territorio privilegiato dell’analisi del reale, secondo parametri individuali che tendono a isolarne un singolo aspetto per ampliarne al massimo il potere evocativo. Come Cezanne quando dipinse il “traforo”, oggi alla Neue Staatsgalerie di Monaco , non fu certo guidato nella scelta del soggetto da particolari attrattive di questo spoglio pezzo di campagna con la casa su un rialto, la montagna nello sfondo e l’imbocco del tunnel al centro. Il luogo suggerì soltanto alcuni motivi di forma, che egli poi realizzò in modo tutto personale con quella sua pennellata densa, che dà spessore ai piani di colore e identifica pertanto il volume con la stesura cromatica, mentre lo spazio si realizza anch’esso attraverso scalature di volumi. Così come nelle foto di Sortini davanti ad un luogo non passivamente osservato, ma “ripreso” non per qualche insita bellezza ma perché si presta a essere interpretato come massa di volumi, ombre e luce. Ed in queste foto l’unica tensione che si avverte è tra la materia e la luce. In effetti, come suggerisce Jean-Claude Lemagny, la fotografia è proprio l’arte dove questi due aspetti del reale si manifestano, non più per imitazione o finzione, ma in diretta, per contatto. Un paesaggio, una veduta qualsiasi, infatti, non esiste al di fuori dell’occhio di chi lo guarda, che è il nostro occhio stesso che dà un significato alle cose guardate, che ciascuno di noi del resto vede diversamente dagli altri. E le città che ha fotografato Sortini, grazie alla luce che le inonda, dovuta naturalmente alla grande capacità ed esperienza dell’artista, non sembrano più “ammassamenti innaturali”, ma appaiono più libere, più aperte, proprio perché la materia vuole durare e la luce vuole salvarsi.</p>
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