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La meccanica dei sogni - Foto(en)grammi
Autore: Luigi Perazzone
- Pubblicato il 09/06/15
Come descrizione del mio lavoro mi permetto di riportare quanto scritto sul mio lavoro da Viana Conti.
Luigi Perazzone Affioramenti. Fiori della Mente
di Viana Conti
Il primo approccio alle opere fotografiche di Luigi Perazzone confronta l’osservatore con un universo – o un multiverso? - fatto di lampi di immagini emerse dal profondo dell’io. Una seconda lettura non cessa di stimolare interrogativi intorno alla modalità esecutiva dell’autore, invitando a una decostruzione dei suoi dispositivi linguistici. Esemplare a questo riguardo è, a titolo di esempio, la fotografia del grappolo d’uva bianca, insospettabilmente costruito acino per acino. La foto, infatti, costituisce un illuminante test sul montaggio messo in opera dall’artista nei suoi cosiddetti foto(en)grammi (l’engramma è un’iscrizione sulla tabula rasa della memoria), in cui applica una sintassi articolata e complessa di regole, eccezioni, calcoli, spostamenti prospettici, rotazioni di elementi animati o inanimati, revisioni, effetti bidimensionali o tridimensionali, cesure o suture, giochi di trasparenza, opacità, peso, luce. Lo stesso processo viene applicato a una coppa di mele e a un’inquadratura di fili d’erba. Lo slittamento del reale nell’irreale si coglie anche nella cristallizzazione temporale delle palline del giocoliere, innaturalmente sospese nello spazio, come pure nella ricorsività delle finestre dietro cui appare, in simultanea, la stessa figura di donna. Queste fotografie scaturiscono da modelli rappresentativi della mente, della capacità percettiva, della struttura onirica. Una semplice lampadina trasparente, sospesa nel vuoto, diventa superficie curva di riflessioni di finestre di luce, nonché sfera di attrazione fatale, se accesa, di falene, farfalle, mosche, che si vi posano fiduciose e che, viste al di là del globo di vetro, sembrano volarvi all’interno. Gli effetti percettivi sono così sensibili da innescare il dubbio, anche se, il solo dubitare, è già dar credito più all’assurdo che al reale. È nota, infatti, l’inattendibilità oggettiva della rappresentazione fotografica. È possibile visualizzare immagini mai viste? Si dice che i ciechi e i feti nella placenta sognino come i vedenti!
Il referente di LP non è la realtà immediata, ma la potenzialità di mediazione del soggetto umano. Il suo mondo immaginale è l’esito di un esercizio di avvicinamento alla sfera ipnagogica, ma anche al processo creativo, raffinato, autoreferenziale, dell’alta lezione del Manierismo pittorico. I suoi stilemi estetici, di ampia eleganza pseudo-narrativa, privilegiano situazioni irreali, surreali, dove aleggia l’inspiegabile, il mistero, quando non addirittura il rebus (quattro oche bianche, su un prato, sfilano noncuranti accanto ad un corpo esangue di donna, con occhiali da sole, avvolta in un letale sacco di plastica trasparente. Il voyeurismo a cui viene invitato l’osservatore, si accentua di fronte alla noncuranza degli astanti, forse sudamericani, seduti in una grande sala da congressi, che continuano a leggere il giornale davanti alla generosa profusione, su un grande schermo, delle nudità di una bionda in calzamaglia traslucida e lunghi guanti neri. Sovente gli scenari si strutturano come suture di situazioni oscillanti tra il sonno e la veglia. Alle elaborazioni oniriche complesse seguono formalizzazioni di segni precognitivi, premonitori, specchi dove giocano le ansie e le angosce di un soggetto. Effetti di realtà si accompagnano a possibili sollecitazioni sinestesiche. Nell’apparente veridicità del sogno, si verificano salti temporali, logici, razionali, spaziali, ribaltamenti di situazioni dalla parola all’afasia, dalla fuga all’impossibilità di deambulazione, dalla reattività all’immobilità. Analogamente in queste foto non sempre quello che è visibile è reale. Nei suoi quadri del quotidiano, la vita si immobilizza, i soggetti diventano statuari, le figure sono sospese tra il sonno e la morte. Un assembramento davanti a un probabile Palazzo di Giustizia lascia immaginare un crimine in atto. In una sorta di giardino incantato, dietro una cascata di edera, un bambino, accigliato, in body a righe, è scortato da un cane. Luci e ombre esaltano o incupiscono il paesaggio. Una fata ballerina, in tutù trasparente, controluce, in duo con un quadrupede, avanza, con in mano una girandola, su una strada bagnata di campagna, tendendo il braccio verso il cielo. Il territorio è quello delle immagini mentali.
Ricorrendo al termine parascientifico di Foto(en)grammi, l’artista orienta la lettura anche in direzione del patrimonio genetico dell’immaginario occidentale, collettivo o individuale, analizzato da Aby Warburg, che con il suo aforisma Zum Bild das Wort vede nell’immagine la sorgente, anche emotiva, della narrazione e quindi della Storia come scorrimento in avanti, dal passato al futuro, tramite il presente, in quanto progetto, o all’indietro, come riflessione o nostalgia. È indecidibile se Luigi Perazzone privilegi, nella sua opera, parametri scientifici o estetici. Indubbio è che il suo linguaggio ha una consapevolezza alimentata alla fenomenologia della percezione, della coscienza, delle impressioni corticali e neurali, ma anche alla psicoanalisi, alla letteratura, alla pittura, alla poesia, al cinema. Si può trovare una sua consonanza con l’immaginario del regista David Linch, seducente evocatore di un mondo surreale, la cui l’apparente narratività risulta da un montaggio di spezzoni della memoria, di impressioni vivide, ma emerse in superficie lungo diramazioni di specchi di faglia, di riverberi di flash dal profondo, di derive psicologiche. Le elaborazioni di LP, esito di esperienze visive filtrate dalla coscienza, di proiezioni scaturite dalle sfere dell’immaginario, della psiche, della mente, tagliano i rapporti non esclusivamente con la realtà, ma anche con la fantasia. Le sue sono immagini autoreferenziali, in parte ereditate o trasmesse dalle sfere neurali e genetiche e in parte ricreate. L’artista attinge al suo archivio fotografico come alla memoria di un cervello o di un elaboratore elettronico e ne preleva spezzoni, sequenze, fotogrammi, che poi riassembla, attivandoli in uno scenario, come accade nell’esecuzione delle note, da parte dello strumentista, in una composizione musicale. Questo caleidoscopio di fermi-immagine rianimati intende forzare i limiti del reale e del fantastico, per esplorare un terreno altro, più avvertito che indagato. Analogamente al pittore, che agisce con segni e gesti mediati e immediati sulla tela come schermo di proiezione, o al poeta visivo, allo scrittore visuale, che elaborano i loro poemi asemantici muovendo i dispositivi linguistici come pedine sulla scacchiera, così Luigi Perazzone usa ogni dispositivo del linguaggio, ogni percorso associativo o dissociativo, per raggiungere l’esito di una metascrittura foto(en)grafica. Vi si coglie un labirinto mnestico verso luoghi irraggiungibili, luoghi dello straordinario, dove l’incongruo, l’erotismo, l’esotismo si sfiorano senza interagire. Il corpo umano riveste nella rappresentazione una funzione plastica, il segno di un enigma. A volte fa la sua apparizione l’abnorme, come la pesca dei coccodrilli su una zattera. Occidente, Medio-Oriente ed Estremo Oriente si osservano come estranei e familiari insieme, come pure il mondo blasonato e quello umile del lavoro. Sulla muraglia cinese militari, come soldatini di piombo, svolgono i lori esercizi ginnici agli attrezzi. Altrove misteriose strutture si dissolvono o emergono nelle luci livide e allucinate del paesaggio, mentre sulle colline appare, nella foschia, una statuaria figura d’ombra. Templi orientali, decorazioni occidentali, monaci, santoni, guardiani, giocolieri, barboni, trovano una modalità, sempre diversa, di apparizione. Tre o quattro figure in un paesaggio livido rinviano a un complotto. Una bandiera svettante su una fortezza si accompagna ad una figura femminile, seduta sul bordo di un marciapiede, mentre un bambino in calzoni corti si allontana, senza voltarsi. Su un prato, simmetricamente cimiteriale, tra filari di cipressi, una colonna di fumo si alza dall’automobile di un elettrauto. L’umanità si guarda e si sostiene su una gradinata che accede ad un salone, dove un lampadario a coppe si moltiplica prospetticamente in una successione potenzialmente infinita, mentre, intorno, il limite tra interno ed esterno si dilegua. I piani architettonici, come in Escher, non rispondono a una logica prospettica, spaziale, funzionale. La verticalità sospetta di una gradinata non scoraggia una donna in abito nero, intenta nella scalata; alla base un’altra donna trascina un voluminoso involucro, discosto, un rullo di materiale imprecisato si svolge verticalmente. Case coloniche, templi, colonne, rovine, si affacciano su pianure incollocabili geograficamente e spazialmente. In uno spaesante bosco di argentee betulle, dove si stagliano inverosimilmente una porta a vetri e una parete nera su alcuni gradini di cemento, una mamma orientale alita lievemente su un soffione davanti a un bimbo dal viso affondato in un cappello a tesa, troppo grande. All’interno di uno pseudo autobus dalle grandi vetrate, seduto su uno dei sedili neri, un bambino, travestito da Charlie Chaplin, osserva l’osservatore, mentre al centro, sul fondo, un uomo corpulento con gli occhiali controlla lo spazio vuoto. Inquietante spesso è il ricorso alla prospettiva centrale, come pure all’obiettivo fisheye. Sopra la voluta barocca di una chiesa e sulla facciata di un caseggiato popolare del Novecento si affaccia dal parapetto di un piano inesistente, un’inconsistente figuretta umana. Una serpe schiacciata in curva sull’asfalto, offre un miserevole spettacolo di insidia sventata e morte trovata. Avvolto da cerchioni, uno strano cilindro con terminale a cono, appare su una spianata, al limitare di una collina scura, mentre le nuvole riversano una pioggia di luce su uno specchio d’acqua o terra: ombre si intravvedono in lontananza. Una vecchia corriera transita su un ponte alla base di rocce a picco: sul greto di un torrente si prostra un robot di acciaio lucente dal cui dorso fuoriescono due gambette flosce di bambola. Lungo un dispiegato muro di mattoni, un gruppo di figure maschili, attente al loro bagaglio, sembrano sul punto di partire. Due figure di spalle, una vestita di bianco e l’altra di nero, guardano, osservate da una tartaruga, una germinazione spontanea di arcaiche rovine dentro un paesaggio di arcaiche rovine. Memorie di vissuto come un materasso consunto, scaricato in un esterno, giocolieri e santoni, atleti e barboni, abitano i topoi del discorso visivo dell’artista. Nella sua fotografia questo autore regola l’illuminazione per non abbacinare, per consentire di contemplare; sceglie le zone chiaroscurali dell’immaginario per smascherare la luminaria accecante, i riflettori spietati del vivere contemporaneo, costruisce un tempio in un deserto per iscrivervi frammenti di vita, sottratti all’implacabile panopticon della civiltà dello spettacolo. Pur se Luigi Perazzone, alla maniera di John Cage, intende deprivare i suoi foto(en)grammi di progetto, intenzione, motivazione, significato, immaginazione, comunicazione, tuttavia degli elementi eclissati resta l’eco, l’aura, la luce metafisica, che costituisce l’opera, un’opera in cui si perpetua una latenza dell’apocalisse, di un disvelamento in atto, inevitabile, improrogabile.
Il lavoro completo è composto da un centinaio di stampe giclée su carta baritata Hahnemuhle incorniciate e con passe-partout di formato (la cornice) 60 x 40 cm. con vetro plastico di protezione.
Luigi Perazzone Affioramenti. Fiori della Mente
di Viana Conti
Il primo approccio alle opere fotografiche di Luigi Perazzone confronta l’osservatore con un universo – o un multiverso? - fatto di lampi di immagini emerse dal profondo dell’io. Una seconda lettura non cessa di stimolare interrogativi intorno alla modalità esecutiva dell’autore, invitando a una decostruzione dei suoi dispositivi linguistici. Esemplare a questo riguardo è, a titolo di esempio, la fotografia del grappolo d’uva bianca, insospettabilmente costruito acino per acino. La foto, infatti, costituisce un illuminante test sul montaggio messo in opera dall’artista nei suoi cosiddetti foto(en)grammi (l’engramma è un’iscrizione sulla tabula rasa della memoria), in cui applica una sintassi articolata e complessa di regole, eccezioni, calcoli, spostamenti prospettici, rotazioni di elementi animati o inanimati, revisioni, effetti bidimensionali o tridimensionali, cesure o suture, giochi di trasparenza, opacità, peso, luce. Lo stesso processo viene applicato a una coppa di mele e a un’inquadratura di fili d’erba. Lo slittamento del reale nell’irreale si coglie anche nella cristallizzazione temporale delle palline del giocoliere, innaturalmente sospese nello spazio, come pure nella ricorsività delle finestre dietro cui appare, in simultanea, la stessa figura di donna. Queste fotografie scaturiscono da modelli rappresentativi della mente, della capacità percettiva, della struttura onirica. Una semplice lampadina trasparente, sospesa nel vuoto, diventa superficie curva di riflessioni di finestre di luce, nonché sfera di attrazione fatale, se accesa, di falene, farfalle, mosche, che si vi posano fiduciose e che, viste al di là del globo di vetro, sembrano volarvi all’interno. Gli effetti percettivi sono così sensibili da innescare il dubbio, anche se, il solo dubitare, è già dar credito più all’assurdo che al reale. È nota, infatti, l’inattendibilità oggettiva della rappresentazione fotografica. È possibile visualizzare immagini mai viste? Si dice che i ciechi e i feti nella placenta sognino come i vedenti!
Il referente di LP non è la realtà immediata, ma la potenzialità di mediazione del soggetto umano. Il suo mondo immaginale è l’esito di un esercizio di avvicinamento alla sfera ipnagogica, ma anche al processo creativo, raffinato, autoreferenziale, dell’alta lezione del Manierismo pittorico. I suoi stilemi estetici, di ampia eleganza pseudo-narrativa, privilegiano situazioni irreali, surreali, dove aleggia l’inspiegabile, il mistero, quando non addirittura il rebus (quattro oche bianche, su un prato, sfilano noncuranti accanto ad un corpo esangue di donna, con occhiali da sole, avvolta in un letale sacco di plastica trasparente. Il voyeurismo a cui viene invitato l’osservatore, si accentua di fronte alla noncuranza degli astanti, forse sudamericani, seduti in una grande sala da congressi, che continuano a leggere il giornale davanti alla generosa profusione, su un grande schermo, delle nudità di una bionda in calzamaglia traslucida e lunghi guanti neri. Sovente gli scenari si strutturano come suture di situazioni oscillanti tra il sonno e la veglia. Alle elaborazioni oniriche complesse seguono formalizzazioni di segni precognitivi, premonitori, specchi dove giocano le ansie e le angosce di un soggetto. Effetti di realtà si accompagnano a possibili sollecitazioni sinestesiche. Nell’apparente veridicità del sogno, si verificano salti temporali, logici, razionali, spaziali, ribaltamenti di situazioni dalla parola all’afasia, dalla fuga all’impossibilità di deambulazione, dalla reattività all’immobilità. Analogamente in queste foto non sempre quello che è visibile è reale. Nei suoi quadri del quotidiano, la vita si immobilizza, i soggetti diventano statuari, le figure sono sospese tra il sonno e la morte. Un assembramento davanti a un probabile Palazzo di Giustizia lascia immaginare un crimine in atto. In una sorta di giardino incantato, dietro una cascata di edera, un bambino, accigliato, in body a righe, è scortato da un cane. Luci e ombre esaltano o incupiscono il paesaggio. Una fata ballerina, in tutù trasparente, controluce, in duo con un quadrupede, avanza, con in mano una girandola, su una strada bagnata di campagna, tendendo il braccio verso il cielo. Il territorio è quello delle immagini mentali.
Ricorrendo al termine parascientifico di Foto(en)grammi, l’artista orienta la lettura anche in direzione del patrimonio genetico dell’immaginario occidentale, collettivo o individuale, analizzato da Aby Warburg, che con il suo aforisma Zum Bild das Wort vede nell’immagine la sorgente, anche emotiva, della narrazione e quindi della Storia come scorrimento in avanti, dal passato al futuro, tramite il presente, in quanto progetto, o all’indietro, come riflessione o nostalgia. È indecidibile se Luigi Perazzone privilegi, nella sua opera, parametri scientifici o estetici. Indubbio è che il suo linguaggio ha una consapevolezza alimentata alla fenomenologia della percezione, della coscienza, delle impressioni corticali e neurali, ma anche alla psicoanalisi, alla letteratura, alla pittura, alla poesia, al cinema. Si può trovare una sua consonanza con l’immaginario del regista David Linch, seducente evocatore di un mondo surreale, la cui l’apparente narratività risulta da un montaggio di spezzoni della memoria, di impressioni vivide, ma emerse in superficie lungo diramazioni di specchi di faglia, di riverberi di flash dal profondo, di derive psicologiche. Le elaborazioni di LP, esito di esperienze visive filtrate dalla coscienza, di proiezioni scaturite dalle sfere dell’immaginario, della psiche, della mente, tagliano i rapporti non esclusivamente con la realtà, ma anche con la fantasia. Le sue sono immagini autoreferenziali, in parte ereditate o trasmesse dalle sfere neurali e genetiche e in parte ricreate. L’artista attinge al suo archivio fotografico come alla memoria di un cervello o di un elaboratore elettronico e ne preleva spezzoni, sequenze, fotogrammi, che poi riassembla, attivandoli in uno scenario, come accade nell’esecuzione delle note, da parte dello strumentista, in una composizione musicale. Questo caleidoscopio di fermi-immagine rianimati intende forzare i limiti del reale e del fantastico, per esplorare un terreno altro, più avvertito che indagato. Analogamente al pittore, che agisce con segni e gesti mediati e immediati sulla tela come schermo di proiezione, o al poeta visivo, allo scrittore visuale, che elaborano i loro poemi asemantici muovendo i dispositivi linguistici come pedine sulla scacchiera, così Luigi Perazzone usa ogni dispositivo del linguaggio, ogni percorso associativo o dissociativo, per raggiungere l’esito di una metascrittura foto(en)grafica. Vi si coglie un labirinto mnestico verso luoghi irraggiungibili, luoghi dello straordinario, dove l’incongruo, l’erotismo, l’esotismo si sfiorano senza interagire. Il corpo umano riveste nella rappresentazione una funzione plastica, il segno di un enigma. A volte fa la sua apparizione l’abnorme, come la pesca dei coccodrilli su una zattera. Occidente, Medio-Oriente ed Estremo Oriente si osservano come estranei e familiari insieme, come pure il mondo blasonato e quello umile del lavoro. Sulla muraglia cinese militari, come soldatini di piombo, svolgono i lori esercizi ginnici agli attrezzi. Altrove misteriose strutture si dissolvono o emergono nelle luci livide e allucinate del paesaggio, mentre sulle colline appare, nella foschia, una statuaria figura d’ombra. Templi orientali, decorazioni occidentali, monaci, santoni, guardiani, giocolieri, barboni, trovano una modalità, sempre diversa, di apparizione. Tre o quattro figure in un paesaggio livido rinviano a un complotto. Una bandiera svettante su una fortezza si accompagna ad una figura femminile, seduta sul bordo di un marciapiede, mentre un bambino in calzoni corti si allontana, senza voltarsi. Su un prato, simmetricamente cimiteriale, tra filari di cipressi, una colonna di fumo si alza dall’automobile di un elettrauto. L’umanità si guarda e si sostiene su una gradinata che accede ad un salone, dove un lampadario a coppe si moltiplica prospetticamente in una successione potenzialmente infinita, mentre, intorno, il limite tra interno ed esterno si dilegua. I piani architettonici, come in Escher, non rispondono a una logica prospettica, spaziale, funzionale. La verticalità sospetta di una gradinata non scoraggia una donna in abito nero, intenta nella scalata; alla base un’altra donna trascina un voluminoso involucro, discosto, un rullo di materiale imprecisato si svolge verticalmente. Case coloniche, templi, colonne, rovine, si affacciano su pianure incollocabili geograficamente e spazialmente. In uno spaesante bosco di argentee betulle, dove si stagliano inverosimilmente una porta a vetri e una parete nera su alcuni gradini di cemento, una mamma orientale alita lievemente su un soffione davanti a un bimbo dal viso affondato in un cappello a tesa, troppo grande. All’interno di uno pseudo autobus dalle grandi vetrate, seduto su uno dei sedili neri, un bambino, travestito da Charlie Chaplin, osserva l’osservatore, mentre al centro, sul fondo, un uomo corpulento con gli occhiali controlla lo spazio vuoto. Inquietante spesso è il ricorso alla prospettiva centrale, come pure all’obiettivo fisheye. Sopra la voluta barocca di una chiesa e sulla facciata di un caseggiato popolare del Novecento si affaccia dal parapetto di un piano inesistente, un’inconsistente figuretta umana. Una serpe schiacciata in curva sull’asfalto, offre un miserevole spettacolo di insidia sventata e morte trovata. Avvolto da cerchioni, uno strano cilindro con terminale a cono, appare su una spianata, al limitare di una collina scura, mentre le nuvole riversano una pioggia di luce su uno specchio d’acqua o terra: ombre si intravvedono in lontananza. Una vecchia corriera transita su un ponte alla base di rocce a picco: sul greto di un torrente si prostra un robot di acciaio lucente dal cui dorso fuoriescono due gambette flosce di bambola. Lungo un dispiegato muro di mattoni, un gruppo di figure maschili, attente al loro bagaglio, sembrano sul punto di partire. Due figure di spalle, una vestita di bianco e l’altra di nero, guardano, osservate da una tartaruga, una germinazione spontanea di arcaiche rovine dentro un paesaggio di arcaiche rovine. Memorie di vissuto come un materasso consunto, scaricato in un esterno, giocolieri e santoni, atleti e barboni, abitano i topoi del discorso visivo dell’artista. Nella sua fotografia questo autore regola l’illuminazione per non abbacinare, per consentire di contemplare; sceglie le zone chiaroscurali dell’immaginario per smascherare la luminaria accecante, i riflettori spietati del vivere contemporaneo, costruisce un tempio in un deserto per iscrivervi frammenti di vita, sottratti all’implacabile panopticon della civiltà dello spettacolo. Pur se Luigi Perazzone, alla maniera di John Cage, intende deprivare i suoi foto(en)grammi di progetto, intenzione, motivazione, significato, immaginazione, comunicazione, tuttavia degli elementi eclissati resta l’eco, l’aura, la luce metafisica, che costituisce l’opera, un’opera in cui si perpetua una latenza dell’apocalisse, di un disvelamento in atto, inevitabile, improrogabile.
Il lavoro completo è composto da un centinaio di stampe giclée su carta baritata Hahnemuhle incorniciate e con passe-partout di formato (la cornice) 60 x 40 cm. con vetro plastico di protezione.
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